giovedì 26 marzo 2015

"Le intenzioni implicite ed esplicite del linguaggio": un altro estratto de "Le Materie Prime della coscienza"



Si esponga, qui di seguito, un estratto del paragrafo 1 (cap. 1, [A.], III, parte seconda, Le Materie Prime della coscienza) "Mitologia Greca: l'Orfismo, Omero, Esiodo. Le intenzioni implicite ed esplicite del linguaggio".


Ogni Filosofia è, anzitutto, la Filosofia autentica del Tutto, che include sé stessa come l’autentico linguaggio indicante appunto sé stesso nel suo esser il medesimo significato filosofico dell’essente. Tuttavia, il linguaggio (e quindi primariamente il linguaggio filosofico, che contiene sé stesso in una serie finita di linguaggi: linguaggio artistico, giuridico, economico, animale, orientale, occidentale, politico, tecnico-scientifico, poetico, ecc.), pur designando il significato concreto del Tutto, si struttura originariamente come l’illudersi di indicare altro da ciò che questo significato significa. Anche questo saggio (insieme a La struttura concreta dell'infinito e Del tragico Amore) è un linguaggio che si rivolge al Tutto infinito, e tuttavia è un illudersi di riferirsi ad altro (ad esempio alla convinzione che quel certo essente che viene definito come «la parola “essere”» sia propriamente e solamente tale definizione, nel modo in cui quest’ultima viene concepita come una delle forme di comunicazione più dirette intorno alla persuasione di essere, emergendo e rientrando nel nulla assoluto): tale linguaggio è un illudersi siffatto sebbene esso intenda esplicitamente rivolgersi alla verità del Tutto, al contrario di altri linguaggi in cui questa intenzione rimane implicita o addirittura soppiantata dall’intenzione opposta.
Ciò significa che anche il linguaggio appropriato alla cultura del Regno Della Similarità Prevalente (Regno SP) (che sia la cultura orientale o che sia quella occidentale o di altro tipo; e che sia il linguaggio platonico o quello cartesiano, ecc.) è, in verità, il linguaggio autentico che designa il Tutto semantico dell’essente eterno: il linguaggio autentico che indica sé stesso nel suo essere il Tutto: il linguaggio autentico che, in quanto distinto da sé nel suo essere il Tutto, è tuttavia l’illudersi di non essere e di non indicare il Tutto. Si tratta quindi di scorgere secondo quali peculiari aspetti si costituisce il linguaggio del Regno SP : se si costituisce così come si struttura il linguaggio di questa opera (e dei miei altri saggi), oppure se si costituisce secondo implicitezze o intenzioni che differiscono dall’intenzione esplicita, propria di quest’opera, di riferirsi al Tutto semantico dell’essere.
Il linguaggio filosofico che si sta portando avanti sin da La struttura concreta dell’infinito è un’intenzione esplicita di indicare il Tutto semantico. Pertanto, rimane un problema stabilire quali siano altre intenzioni esplicite siffatte e in quali essenti consistano sia le intenzioni implicite di indicare il Tutto, sia le intenzioni (implicite ed esplicite) di riferirsi ad altro. E quindi rimane un problema, anche, stabilire l’autentico ordine di successione che conduce da una certa intenzione (ad esempio quella di Severino) ad una cert’altra intenzione (ad esempio la mia); così come rimane un problema stabilire se in una certa coscienza (ad es. in quella di Severino) è presente o meno un’intenzione diversa (nel «linguaggio interiore») da quella da cui scaturisce il «linguaggio esteriore» appartenente a tale coscienza.
Si badi: il mio linguaggio, qui ed ora, appare nel percorso eterno della Prima Volta, cioè del prevalere del linguaggio, ossia del prevalere dell’illudersi di non essere il Tutto, del prevalere, cioè, di quell’autentica testimonianza del Tutto la quale è identica all’illudersi di non esser tale testimonianza. Quindi questo mio linguaggio non è (come ogni altro linguaggio spettante a quel percorso) il prevalere della verità (indicata dal linguaggio). Poiché la testimonianza della verità è sia l’intenzione (implicita ed esplicita) di indicare il Tutto (appunto perché tale testimonianza è testimonianza della verità del Tutto), sia l’intenzione (implicita ed esplicita) di indicare il nulla (appunto perché tale testimonianza è un non esser ciò che essa stessa indica), è necessario che in ogni coscienza del tracciato della Prima Volta prevalga o l’intenzione (implicita o esplicita) di indicare il Tutto, o l’intenzione (implicita o esplicita) di indicare il nulla, ma fermo restando che questo prevalere è tale non già rispetto alla verità, bensì all’interno del modo in cui a prevalere è la non verità del linguaggio. Ciò significa che se e poiché nella mia coscienza prevale l’intenzione esplicita di indicare la verità del Tutto, ne risulta che è sì inevitabile che tale prevalere sopraggiunga, all’interno del sentiero finito della Prima Volta, successivamente al sopraggiungere sia del prevalere (in altre coscienze eterne) dell’intenzione (implicita ed esplicita) di indicare il nulla, sia del prevalere dell’intenzione implicita di indicare il Tutto; ma rimane problematico stabilire sia 1) se le (necessarie) altre intenzioni esplicite di indicare il Tutto sopraggiungano soltanto dopo il sopraggiungere della mia (essendo infatti inevitabile che esistano intenzioni esplicite siffatte che affiorano dopo la mia – dato che la mia appare all’interno del tracciato del Regno SP, il quale è necessariamente seguito da altri tracciati prima che sopraggiunga il Passaggio che conduce all’eterna via finita del Ritorno –, ed essendo invece un problema, si sta dicendo, scorgere se prima della mia sopraggiunga un certo numero di altre intenzioni esplicite siffatte), sia 2) l’esatta quantità-qualità delle intenzioni diverse dalla mia. (Il linguaggio che procede da La struttura concreta dell’infinito verso Le Materie Prime della coscienza è comunque interno alla fase transitoria che si pone tra la dominazione della volontà privata di potenza e la dominazione della volontà pubblica di potenza ovvero della volontà di indicare la verità autentica; ciò significa che tale linguaggio è una delle anticipazioni del modo in cui quest’ultima volontà è destinata a dominare nel Regno SP).
In proposito, si richiamino questi passi del mio saggio Del Tragico Amore:
«Poiché ogni parola [...], nel suo legame con l’esser segno [cioè un indicare] che compete ad ogni essente in quanto parte del Tutto concreto, si manifesta immediatamente [...] come testimoniante un significato (l’unico: il Tutto semantico della struttura infinita dell’essere), e si manifesta in tal modo al di là delle intenzioni (“al di là”, nel senso che è l’infinito semantico ad includere sé stesso come tali intenzioni, e non viceversa), relative ai segni, di testimoniarlo o meno, allora è chiaro che io, che intendo indicare, per mezzo di ciò che qualifico come “i miei libri” (e anche “il mio linguaggio interiore”), il vero significato universale dell’essere, lo indico [...], in quanto segno autentico di tale significato, oltrepassando già da sempre ed eternamente la mia intenzione di indicarlo; e quindi lo indicherei anche nel caso in cui avessi l’intenzione opposta, cioè quella di non indicarlo.
«Ciò significa che io, Severino, Heidegger, Nietzsche, Hegel, Spinoza, Leibniz, Cartesio, Agostino, Aristotele, Epicuro, Platone, Socrate, Parmenide, Gorgia, Anassimene, Anassimandro, Talete; e poi, ancora, un bambino, mia madre, i miei amici e qualsiasi forma di coscienza (dell’intero universo), indichiamo, al di fuori delle nostre stesse intenzioni (positive o negative, che siano esplicitamente o implicitamente così indicanti), ciò che in verità noi (ogni essente) siamo, ossia il significato concreto del Tutto infinito dell’essente eterno.
«Certamente, ciò non vuol dire che quelle intenzioni non sussistano e non siano considerevoli,  ma significa che qualsiasi intenzione noi si abbia, si pone in sé e per sé il nostro testimoniare la (nostra) verità eterna. Diciamo tutti la stessa cosa (cioè siamo tutti il medesimo: l’unica totalità concreta degli essenti), in modi differenti; se, poi, alcuni di questi modi non si costituiscono [non appaiono] come l’intenzione di designare questa verità [...], ne risulta che i modi in cui tale intenzione è prevalente differiscono da quegli altri (in cui è prevalente l’intenzione opposta) secondo direttive (modalità, procedure) oltrepassanti quelle secondo cui quei modi, in cui è dominante l’intenzione di non testimoniare l’Intero semantico, differiscono tra di loro.
«Sebbene gli “scritti” di Severino (e di altri) non dicano quello stesso [quelle medesime espressioni] che i miei “scritti” dicono (nel senso che, adeguandosi alle regole che appartengono al “nostro” linguaggio, appare evidente la differenza tra le proposizioni dei miei libri e quelle dei libri di Severino e di altri), rimane comunque un problema, per questo mio linguaggio attuale, stabilire quale sia effettivamente l’intenzione che, nella coscienza di quell’essente [cioè di quella coscienza] che viene chiamato “Severino” (o “Plotino”, “Fichte” e altri ancora), appare in relazione a quegli “scritti”.
«[...] Qualsivoglia “scritto” [...] è travisato, non decifrato; tuttavia, in quanto esso è traccia del significato reale che si manifesta, lo “scritto” designa, in verità, il significato in quanto significato: ogni “scritto” indica, in modi differenti a seconda della diversità delle tracce [segni] in cui lo “scritto” consiste, il medesimo significato.

«Rimane problematico, d’altra parte [...], quale sia esattamente il proponimento, da parte di chi scrive (ad esempio di Schopenhauer), che configura il campo semantico del segno che, in modo non subordinato a tale proponimento, denota pur sempre lo stesso significato eterno del Tutto. In altre parole: può anche darsi che ciò che effettivamente intende Schopenhauer (o chiunque altro) nella propria coscienza [nel proprio essere il Tutto eterno di cui fa anche parte] sia differente dal modo in cui i suoi “scritti” lasciano intendere; e tuttavia, tali “scritti” e ciò cui si rivolge la mente di Schopenhauer sono in ogni caso lo stesso di ciò che appare in ogni coscienza e di ciò che ogni altro “scritto” significa» (pp. 65-67).