mercoledì 26 giugno 2019

Dall'Ebraismo allo Shintoismo



Riportiamo, qui di seguito, un breve estratto de Le Materie Prime della coscienza (pp. 111-118). (Il termine "Regno SP" è il Regno Umano, cioè di "Similarità Prevalente").


CAPITOLO SECONDO

Dall’Ebraismo allo Shintoismo







1.  L’Ebraismo (Giudaismo, Fariseismo,
Rabbinismo, Caraismo, Cabbalà)

Poiché il sopraggiungere della dominazione della Filosofia Orientale si trova su un «gradino» (uno specifico posizionamento) inferiore – della «scala» (cioè del percorso) propria del Regno SP – rispetto al sopraggiungere della dominazione della Filosofia Occidentale – e posta, quindi, l’implicitezza orientale che nella cultura occidentale viene coerentemente esplicitata –, è necessario affermare che il sopraggiungere della dominazione dell’Ebraismo (che include la rispettiva Filosofia Religiosa) appartiene alla fase in cui a sopraggiungere è la dominazione della Filosofia Orientale. (Vedremo, poi – III, [A.], cap. 3°, par. 8 –, come e perché la Filosofia cristiana è, nell’ambito del sopraggiungere della dominazione della Filosofia Occidentale, la corrispettiva esplicitazione dell’implicitezza dell’Ebraismo).
Ciò che precedentemente rimaneva per lo più inespresso e ambiguo, con l’Ebraismo (e non solo) appare limpidamente: appare che l’essente supremo in cui si ha fede è l’unico dio dimorante al di là e all’interno del mondo. Tale essente non è quindi semplicemente (come in precedenza) un insieme indeterminato che raccoglie una molteplicità di dèi: è l’insieme determinato in cui prende vita ogni determinazione specifica, destinata poi alla morte e successivamente ad un’ascesa verso più alte visioni di quell’insieme immenso ed eterno.
Tuttavia, si sta chiarendo, è la medesima Filosofia dell’Ebraismo a costituirsi ad un più basso livello rispetto alle culture che sopraggiungono al suo seguito, poiché, in tale Filosofia, il dio viene inteso prevalentemente in modo ancora troppo astratto per essere definito come il dio che decide di dare la vita agli esseri del mondo. Tale astrattezza è l’isolamento tra il senso conferito al dio e la necessità che un dio siffatto debba essere concepito come il tutto immutabile che produce dal nulla assoluto le proprie parti. Il Monoteismo dell’Ebraismo si presenta dunque come un pensiero ancora debole rispetto alla potenza concettuale non solo del Cristianesimo, ma di tutta la storia della dominazione occidentale (a sua volta oltrepassata, tale storia, dalla dominazione della volontà che vuole il dio in terra, che vuole cioè che al di fuori del proprio cerchio luminoso non appaia alcunché, giacché essa è volontà pubblica di potenza, interna pur sempre al Regno SP). Con la dominazione dell’Ebraismo ci si trova ancora, cioè, nella fase immatura della collettiva volontà privata di potenza quale appare nel Regno SP.
(La differenza tra il Cristianesimo, l’Ebraismo e, si aggiunga, l’Islam – la cui dominazione è relativa, come quella del Cristianesimo, alla dominazione occidentale – è particolarmente rilevante, sebbene tutte e tre le Filosofie siano «abramitiche», Avraham – Abramo – essendo un comune patriarca. Si dica, inoltre, che la dominazione dell’Ebraismo è da concepire, come si è già avvertito, all’interno della dominazione mitica – in particolare da quando si ha fede nel dio ebraico che si rivolge ad Abramo, forse tra il XX e il XIX sec. a.C. –, e non all’interno della dominazione occidentale, ad esempio non nelle pur importanti vicende riguardanti la diaspora ebraica – quest’ultima dando inizio al Giudaismo, e quindi, anche, al Fariseismo e al Rabbinismo, differenziandosi nettamente, soprattutto quest’ultimo, dalla variante ebraica del Caraismo. Interna alla dominazione occidentale è anche la dottrina mistica della Cabbalà – «tradizione» ebraica –, una Filosofia che, rifacendosi anche al Neopitagorismo e al Neoplatonismo, afferma un senso «eterno» delle cose che, fondandosi sul principio che il dio non consiste essenzialmente in ciascuna di esse, è un senso inautentico dell’«eterno»).
Il dio ebraico è una delle figure di spicco della volontà (privata) di intendere il dio come un’unica identità che, producendo tutte le altre, è identica e, sub eodem, diversa da queste altre identità, nel senso che tale volontà intende isolare l’eterno dio dalle proprie modalità e produzioni temporali: intende rivolgersi ad un’essenza eterna che è presente ovunque – prima, durante e dopo tali modalità e produzioni – in modo isolato e, sub eodem, in relazione a ciò che essa produce. Sebbene intenda riferirsi, la volontà ebraica, alla necessità che il dio si manifesti qui, ora e in ogni tempo della coscienza dell’uomo e delle altre identità, in tale volontà non prevale l’accorgimento autentico della necessità che il Tutto infinito degli eterni (il vero «Dio») sia proprio la coscienza di ogni identità che appare temporalmente. (Alcune delle parole che l’Ebraismo usa per rivolgersi al dio in cui crede sono: Elohim – «divinità»; il tetragramma YHWH – Yahweh in una moderna versione accademica; Adonai, «il Signore», e  Hashem, «il Nome» – i due modi in cui gli ebrei si rifanno a YHWH. Il Tanàkh è la Bibbia ebraica – corrispondente, in gran parte, all’Antico Testamento della Bibbia cristiana –, nella cui prima parte si può trovare l’«insegnamento» in cui consiste la TorahPentateuco –, la «trasmissione orale» della Torah essendo il Talmud. Infine, si dica che la Torah fu consegnata a Mosè, considerato pertanto, dagli ebrei, il più alto spirito profetico).
Il legame tra il dio ebraico e tutto ciò che non è questo dio (compreso il nulla assoluto, benché la dominazione ebraica lo comprenda implicitamente) è un legame di potenza: il dio ebraico è potente, è capace di rendere esistente ciò che prima non lo era, e di rendere inesistente la natura esistente. Frattura assoluta e, sotto il medesimo rispetto, parziale relazione tra il dio ebraico e ciò che da esso si distingue. Questo legame di potenza, tra l’onnipotente dio ebraico e tutto ciò che da lui si distingue, è indicato in ebraico col verbo barà.
L’anima (nefesh) di tutto ciò che il dio ebraico produce è il basar, cioè l’identità indivisibile in cui consiste il corpo-anima: è compiutezza psicosomatica. Quindi, l’anima non preesiste al corpo: il corpo-anima è un dono di dio, giacché un dono di dio sarà anche una eventuale prosecuzione del corpo-anima dopo la propria morte.
Nella verità autentica dell’essente, l’anima è sì identica al corpo, ma includendo tale identità come parziale, cioè parziale differenza (oppure, semplicemente, differenza): l’uguaglianza tra l’anima (il Tutto) e il corpo (la parte) accerchia sé stessa in quanto distinzione tra anima e corpo, cioè distinzione tra le anime, ossia tra i corpi. L’anima eterna del Tutto esperisce sé stessa in un certo numero di processi di nascita e morte.


2.  La Filosofia Dei Fenici e degli altri popoli dell’area
semitica siro-palestinese e mesopotamica;
lo Zoroastrismo (o Mazdeismo)

Il dio supremo a cui si rivolge la volontà privata di potenza è come un immane ricettacolo in cui si crede di trovare riparo, protezione. L’appellativo di «rifugio dei viventi», dato ad Anat («Vergine Dea») – divinità (anche) della Filosofia Dei Fenici (2000-332 a.C.) –, sta a testimoniare appunto la volontà che, essendo fede di non essere il Tutto divino, chiede ausilio alla forza infinita in cui per lo più crede. Il dio supremo evocato dai Fenici (insieme agli altri popoli dell’area semitica siro-palestinese e mesopotamica) è comunque El («il più alto», un nome che si può ritrovare anche nella Bibbia ebraica e nella derivazione del termine arabo Allah), padre di Dagan, il quale è a sua volta padre di Baal, il principale tra gli dèi fenici.

La dominazione dello Zoroastrismo (o Mazdeismo) si colloca anch’essa all’interno della dominazione mitica (prima del VI sec. a.C., nell’antica Persia – l’attuale Iran; una dominazione, quella dello Zoroastrismo, che verrà lasciata indietro dalla propria rigorizzazione esplicita in cui consiste la dominazione dell’Islam). Il nome «Zoroastrismo» deriva dal nome del profeta Zarathuštra (o Zoroastro), autore (almeno) dei «canti religiosi» delle Gāthā, contenuti nel testo sacro dell’Avestā («il Fondamentale», «il Comandamento»).
«Riconosco, o Mazda [il dio, “lo spirito che crea con il pensiero”], nel mio pensiero, che tu sei il Primo ed anche l’Ultimo, l’Alfa e l’Omega [...] tu sei il vero creatore di Aša (“verità”), e tu sei il Signore dell’esistenza e delle azioni della vita attraverso il tuo operare» (Avestā, Yasna, XXXI, 8).
Anzitutto, che esista «lo spirito che crea con il pensiero» è impossibile, data la necessità di affermare che la parola «spirito» è, quanto al suo significato fondamentale, identica alla parola «pensiero»; non solo: queste due parole sono a loro volta semanticamente uguali alle parole «dio», «verità», «esistenza» e «vita», giacché è altrettanto impossibile che Mazda sia «il vero creatore di Aša». E ancora: le stesse espressioni «Primo», «Ultimo» e «attraverso» (cioè il «modo», in cui il Tutto è Tutto), in quanto concepite nel loro esser legate tra di loro e con tutti gli altri essenti, sono anch’esse semanticamente identiche a quelle parole.
«I due Spiriti primordiali, che (sono) gemelli, (mi) sono stati rivelati (come) dotati di propria (autonoma) volontà. I loro due modi di pensare, di parlare e di agire sono (rispettivamente) il migliore e il cattivo. E tra questi due (modi) i benevoli discernono correttamente, non i malevoli. Allora, il fatto che questi due Spiriti si confrontino, determina, all’inizio, la vita e la non vitalità, in modo che, alla fine, L’Esistenza Pessima sia dei seguaci della Menzogna, ma al seguace della Verità (sia) l’Ottimo Pensiero» (ibid., XXX, 3-4).
In verità, essendo il «modo» ad essere il «cattivo» (oppure «i malevoli», «L’Esistenza pessima», la «Menzogna»), è contraddittorio che «il migliore e il cattivo» si costituiscano come «due modi di pensare». Tutti noi (ogni essente) siamo, in verità, «l’Ottimo Pensiero» cioè l’autentica «Verità», e cioè tutti noi siamo, anche, la «Menzogna», ossia l’illudersi di non esser la verità innegabile del Tutto eterno.


3.  La morte, il bene e il male nell’antico Egitto

La volontà privata di potenza è volontà di innalzare un senso (in verità illusorio) divino del Tutto, al di sopra della persuasione di esser semplicemente un tratto, prodotto dal nulla assoluto, interno ad un Tutto divino siffatto. Rivolgersi a tale senso vuol dire anche aspirare alla prosecuzione, dopo la propria morte, dello spirito che anima il corpo caduto ormai nel nulla assoluto.
La morte, nel suo senso autentico, non è un cadere nel nulla assoluto, bensì è l’eterna conclusione dell’eterna vita che, essendo nata (in eterno), è assegnata appunto alla morte. Tranne la morte della vita dell’Ultimo, ogni morte (di una vita intesa come un insieme eterno di diversi istanti eterni, e non la morte semplicemente di uno di tali istanti) conduce ad un passaggio eterno dopo il quale sopraggiunge un’altra vita (destinata anch’essa a morire, e così via fino a che non affiora appunto la vita dell’Ultimo che, morendo, chiude eternamente l’eterno percorso finito del Tutto infinito).
All’interno della parziale negatività del divenire (che include il processo di nascita e morte degli eterni stati del Tutto immutabile), la morte è comunque qualcosa di più positivo rispetto alla vita non ancora morta, nel senso che la morte è, in ogni caso, un salire, un passare oltre l’affiorare di certe contraddizioni (che costituiscono la vita non ancora morta). Non si fanno passi indietro. Il sentiero del Tutto è (anche) la necessità che le morti siano un passo in avanti verso sempre più concrete distese dell’essere. La morte di ognuno di noi (cioè di tutto ciò che è destinato a morire) è già da sempre decisa: il destino decide ed esperisce in eterno la morte di ogni vita, nel modo processuale che compete all’apparire di ogni essente.

Credere di morire finendo nel nulla (con il corpo e con la mente, o soltanto con il corpo) è l’illusione della volontà di potenza. Tale volontà, inoltre (come si è già accennato), nel suo apparire come volontà privata, è la fede che si illude che la morte possa condurre la coscienza (lo spirito, l’anima, la mente, l’io) in dimensioni diverse da quella in cui il corpo vissuto è ormai (creduto come) un nulla. È la situazione, ad esempio, in cui si trovano i credenti dell’antico Egitto (dal 3000 a.C. al 600 d.C.).
Tuttavia, nell’antico Egitto, il corpo assume un ruolo di primaria importanza in relazione al prolungamento della vita dopo la morte. Pur credendo che il corpo (come ogni cosa) non sia eterno (concependo questa parola nel suo significato incontrovertibile, ossia come la stessa esistenza dell’essente che appare in modo processuale), i credenti dell’antico Egitto hanno fede che lo spirito, dopo la morte, possa continuare a vivere solo se 1) il suo corpo non si decompone (di qui la pratica della mummificazione), 2) il nome del defunto viene conservato e ricordato (quindi le iscrizioni nelle tombe, su stele, su statue), 3) il defunto continua ad avere a disposizione cibo e bevande (a cui provvede il culto funerario e il potere magico delle formule d’offerta che si ha cura di scrivere per il defunto).
Inoltre, nell’aldilà, di cui si persuadono i credenti dell’antico Egitto, appare la cosiddetta «bilancia della giustizia», con la quale si valutano i meriti e i demeriti di chi è appena morto. Tale persuasione esiste perché ci si illude di non essere il Tutto autentico degli essenti e di esser capaci di compiere certe azioni (dal nulla): sapere di essere il Tutto infinito (ossia essere il Tutto) vuol dire scorgere l’impossibilità che da una parte sia manifesto il bene e dall’altra parte il male. Il bene autentico è infatti il Tutto stesso che include sé medesimo come l’autentico male in cui consiste ogni parte: il Tutto è il bene, la parte è il male, ma nell’apparire della necessità che il bene e il male siano costituiti dagli stessi essenti: ogni singola coscienza, nel suo essere il Tutto, vuole il bene di sé stessa e di ogni altra coscienza, e la medesima singola coscienza, nel suo esser parte (di sé stessa in quanto Tutto), vuole il male di sé stessa e di ogni altra coscienza. Autenticamente, «volere il bene» significa essere tutto ciò che appare in un divenire, e «volere il male» significa divenire, il «divenire» essendo il modo in cui appare tutto ciò che appare. Il male autentico è cioè la volontà non già di violare il violabile, ma di violare l’inviolabile: tutto è inviolabilmente eterno, giacché non esiste la capacità di violare l’inviolabile, ma esiste la volontà di violarlo (tale volontà essendo la volontà di potenza, che si distingue da sé stessa in quanto è volontà autentica del Tutto che vuole eternamente sé stesso): la volontà di violare l’inviolabile è il senso stesso del divenire, cioè della nascita e della morte di ciò che, essendo eterno, vuole anzitutto il bene di sé stesso (e cioè è l’apparire della propria inviolabilità). Divenendo, il Tutto appare come il non accorgersi di essere il Tutto, e pertanto è autentica violenza, all’interno di sé stesso nel suo essere il superamento originario e immutabile della violenza che in esso appare. Dal prevalere del male (dal percorso finito della Prima Volta) si va verso il prevalere del bene (verso il percorso finito del Ritorno).
Poiché il cammino limitato dell’Intero è un’ascesa perfetta (senza saliscendi), Io (l’Intero), in un certo tempo, sono più «colpevole» («peccatore») rispetto a Me stesso, in un tempo sopraggiungente in seguito a quel certo tempo (e quindi, in tale tempo successivo, sono meno «colpevole» di prima), e cioè in quel tempo precedente sono meno «innocente» dell’«innocenza» che appare in quel tempo seguente. Il prevalere del senso autentico dell’innocenza e della colpevolezza stabilisce l’intensità e il ritmo dell’esser «più» o «meno» colpevoli/innocenti. Esser solamente innocenti o solamente colpevoli è pertanto impossibile. In secondo luogo, il senso autentico della volontà di potenza e delle sue forme interne (dominanti e non dominanti) stabilisce il significato autentico della colpevolezza e dell’innocenza relative appunto a tale volontà (relative, cioè, alla volontà illusoria di fare qualcosa che è più o meno adeguato alla volontà di potenza dominante).
Illudersi di un senso contraddittorio della morte (e quindi della vita) e della giustizia è illudersi, innanzitutto, di vedere la nullità del Tutto. «Quando il cielo ancora non esisteva, / quando la terra non esisteva, / quando nulla esisteva che fosse stabilito» (Testi delle Piramidi). Questi passi vogliono dire che nel tempo («quando») in cui qualcosa («il cielo», «la terra», i quali sono, in verità, sia il Tutto che una sua parte) «non esisteva», tale qualcosa non è ciò che esso è, è nulla, è non-qualcosa, giacché ci si illude che il Tutto non sia il Tutto (benché si creda, nell’antico Egitto, in un demiurgo, il sole, che preesiste al caos primitivo da lui stesso successivamente ordinato, un demiurgo però implicitamente annichilito dalla convinzione che sia, dapprima, un essente che ancora non crea, e poi, un essente che incomincia e finisce di creare, sicché anche il demiurgo è inteso come sporgente dal nulla).


4.  La Filosofia Indiana e l’Induismo (Shivaismo,
Visnuismo, Shaktismo); Jainismo (Mahavira);
Buddhismo (G. Buddha): Amidismo, Buddhismo Del «Grande Veicolo» (Bodhidharma), Buddhismo
Zen, Buddhismo Induista (Nagarjuna)

La dominazione della Filosofia Orientale precede la dominazione della Filosofia Occidentale. Lo si è già detto. Anche l’antica Filosofia Indiana (dal 2400 a.C. al 1600 d.C.) appartiene alla prima dominazione, sebbene vi appartenga in una fase matura di quest’ultima, una fase in cui comincia a farsi sentire con una certa consistenza la centralità del pensiero dell’Occidente.
Un grande e potente tentativo (fallito), quello indiano, di indicare l’autentico senso del Tutto, cercando di conciliare l’eternità del divino con l’eternità dell’anima di tutti gli esseri. L’affermazione che soltanto le anime sono eterne (insieme all’eternità dell’anima assoluta del dio in cui si crede) esclude l’eternità di tutto quel che vien detto «corpo materiale». E se anche si dicesse che i corpi sono essi stessi eterni, un dire siffatto apparirebbe comunque all’interno della convinzione (priva di verità) che l’«eternità» significhi qualcosa di diverso da quel che significa la parola «esistere» (queste due parole indicano infatti il medesimo significato, identico a quello indicato da ogni altra parola in quanto indicante il significato concreto del Tutto – la differenza tra le parole costituendosi all’interno dell’indicazione del significato astratto del Tutto). Il senso autentico del Tutto eterno è il Tutto stesso che appare nel modo diveniente in cui appare ogni istante della nostra vita – giacché ogni istante che appare temporalmente è in verità l’eternità del Tutto (che, appunto, osserva sé stesso in un numero finito di istanti).
Nella Bhagavadgita (il Canto del Beato) si afferma infatti: «Sappi che non può essere annientato ciò che pervade il corpo. Nulla può distruggere l’anima eterna» (p.58); «L’anima è indistruttibile, eterna e senza dimensioni; soltanto i corpi materiali che assume sono soggetti alla distruzione» (p. 60). L’autentico significato dell’«anima» è, invece, il significato stesso del «Tutto eterno», il quale è «eterno e senza dimensioni» non nel senso che i «corpi materiali ... sono soggetti alla distruzione», bensì nel senso che eterne e senza dimensioni sono proprio quelle finite dimensioni in cui consistono i corpi materiali, e cioè proprio nel senso che il Tutto eterno è sconfinato nel suo includere un numero finito di confini: la totalità assoluta dell’infinito è la totalità (eterna) dei corpi materiali, ossia questi corpi sono i corpi della totalità infinita: l’infinito è l’inclusione eterna di sé stesso nel suo apparire come un divenire finito di modi (eterni, che cioè esistono, appaiono) in cui l’infinito è infinito. Ciò (albero, acqua, sasso, etc.) che viene definito «corpo materiale» non è soltanto un «corpo materiale» (una parte, un tempo, una differenza, una dimensione, un’astrattezza, un limite, un numero), bensì è anzitutto lo stesso apparire eterno del Tutto infinito, e cioè è anche un «corpo materiale»: essere il Tutto significa esser anche la parte, ed essere la parte significa essere primariamente il Tutto (il cui esser anche parte appare).
Pertanto, l’«ignorante» è, realmente, la coscienza che si illude che qualsiasi essente può uccidere o essere ucciso (a meno che l’«uccisione» non sia intesa in senso non-nichilistico), e il vero «saggio» sa che tutti gli essenti non uccidono né muoiono (se per «morte» si intende il finire nel nulla assoluto da parte di chi muore); giacché non è vero che soltanto in riferimento all’anima (e non al corpo) si può dire che «Ignorante è colui che crede che l’anima può uccidere o essere uccisa; il saggio sa che l’anima non uccide né muore» (ibid., p. 61).
L’anima, nel suo senso autentico, è ciò che, già da sempre e per eternità, include il proprio svolgimento di nascita e morte. È fuorviante dire quindi: «Per l’anima non c’è né la nascita né la morte. Esiste e non smette mai di esistere. Non nasce, non muore, è eterna, originale, non ebbe mai inizio e non avrà mai fine. Non muore quando il corpo muore» (ibid., p. 62). Il non nascere e il non morire sono l’eternità di ciò che nasce e muore, nel senso che gli essenti cangianti che nascono e muoiono non vengono dal nulla assoluto (non nascono: nascono non nascendo dal nulla assoluto) e non rientrano nel nulla assoluto (non muoiono: muoiono non morendo nel nulla assoluto): ciò che nasce (la parte) proviene da (cioè appare all’interno di) sé stesso in quanto non nascente apparire del Tutto, e ciò che muore rientra in (cioè appare all’interno di) sé stesso in quanto non morente apparire del Tutto (che è lo stesso Tutto non nascente). La differenza tra il Tutto nascente e il Tutto morente è tale in relazione al proprio esser parte (di sé in quanto Tutto): A e B, in quanto sono il Tutto, non differiscono tra di loro; essi differiscono, invece, in quanto appaiono come parti (della loro unione infinita).
L’anima eterna dell’autentico significare del Tutto è unica, in una pluralità finita di modi, cioè di materie in cui l’anima è sé stessa. La dottrina dell’antica Filosofia Indiana, per la quale ciò in cui consiste l’anima universale del dio (brahman) è costituito da essenti differenti da quelli che costituiscono la struttura dell’anima del mondo – a loro volta differenti, tali essenti, da quelli che costituiscono la struttura dell’anima singola (l’atman, che viene inteso anche, d’altronde, come indissolubilmente legato al brahman) –, è la contraddizione fondamentale che prevale non solo nei Veda (linguaggi antichissimi del pensiero induista, affiancati dai grandi poemi epici del Mahabharata – a cui appartiene il testo della Bhagavadgita – e del Ramayana) e in tutta la cultura indiana, ma anche in ogni altra cultura (orientale, occidentale, etc.).
Inoltre, il senso autentico della «reincarnazione», il quale viene testimoniato nel Tragico Amore (e, secondo diverse forme linguistiche, già in S.C.d.I.), è abissalmente diverso da quello che prende spicco nella Filosofia Indiana, non solo perché quello autentico include la necessità della linearità temporale (appartenente a sé stessa in quanto circolo eterno del Tutto), in base a cui si stabilisce che la manifestazione del Tutto, incarnandosi in sé stessa nel suo esser quella parte di sé in cui l’Inizio consiste, si reincarna in sé stessa nel suo esser tutte quelle altre parti di sé costituite dagli essenti che sopraggiungono dopo l’Inizio (nel modo diacronico che a tali parti compete) – una linearità che non è presente, invece, nel concetto di una «ciclicità temporale» (il samsara a cui il mortale è legato in virtù dell’agire in cui il karma consiste, la liberazione – moksa – dal ciclo di nascita e morte e dall’agire essendo il ricongiungimento col brahman) di cui parla la cultura indiana –, ma innanzitutto perché quel senso autentico è la necessità che sia appunto lo stesso Tutto infinito a reincarnarsi.

Inteso in un senso riduttivo, il concetto di «anima» viene relegato, all’interno della Filosofia del Buddhismo (fondata da Gautama Buddha – filosofo indiano, 566-486 a.C. –, più o meno nello stesso periodo del prevalere del Jainismo, basato soprattutto sulle riflessioni di Mahavira – 599-527 a.C. –, e il Buddhismo includendo, tra l’altro, l’Amidismo, cioè il Buddhismo Della Terra Pura, a sua volta incluso nel Buddhismo Del «Grande Veicolo», il cui rappresentante più noto è Bodhidharma, 483-540 d.C.), nella sfera dell’illusione, ossia del modo in cui, secondo tale Filosofia, ci si convince che la nostra vita sia un processo regolato appunto da un’anima (un io, un sé) immortale ed essenziale. Si soffre, afferma il Buddhismo, perché si crede innanzitutto che esista un’anima siffatta, giacché quel processo è anatta, non-io, non-sé. Tuttavia, si sta tentando di chiarire, questa è una delle contraddizioni interne e relative alla contraddizione fondamentale in cui consiste il Buddhismo, quest’ultima essendo quella stessa contraddizione che accompagna la riflessione di ogni altra Filosofia che non sia la Filosofia autentica del Tutto infinito. Una contraddizione relativa, nel senso che è comunque inevitabile che anche per la Filosofia buddhista esista un io, un’anima essenziale, altrimenti, tale Filosofia, non potrebbe nemmeno convincersi dell’esistenza dell’anatta, appunto perché è in base ad un io (ad una coscienza) che ci si può convincere di qualcosa.
Inoltre, nel Buddhismo, il significato del «nirvana» è affine a quello della parola «moksa», una parola appartenente al linguaggio dell’Induismo (a quest’ultimo appartenendo le correnti «devozionali» dello Shivaismo, del Visnuismo e dello Shaktismo): il nirvana è appunto il luogo in cui si è completamente felici, la dimensione in cui non si patisce più il dolore. La verità autentica del Tutto vede, invece, che la compiuta felicità di ognuno di noi è il Tutto stesso nel suo apparire come l’inclusione delle proprie parti, e cioè del proprio dolore, nel modo in cui dal prevalere del dolore si procede verso il prevalere di questa gioiosa compiutezza. Il dolore è l’assenza, quindi è impossibile un luogo in cui sia assente il dolore, ovvero è impossibile un luogo in cui si sia felici senza patimento del dolore.
Ancora: la vacuità (sunyata) a cui si riferisce il Buddhismo (soprattutto con Nagarjuna, il quale visse probabilmente verso la fine del II secolo d.C.) è uno dei modi più rilevanti in cui si esprime la Filosofia Orientale: uno dei modi in cui ci si contraddice per il motivo che ci si intende rivolgere a ciò (quella vacuità) che viene inteso come il non-intendibile. Quando si sostiene che una vacuità siffatta è la realtà in sé di cui non si può dire né che esiste né che non esiste (come sostiene appunto Nagarjuna), ci si immerge in un contesto linguistico riduttivistico nel quale ci si persuade che l’«esistere» (l’essente) e il «non esistere» (il nulla) non costituiscano il significato autentico dell’Assoluto, cioè dell’opposizione infinita tra l’essere eterno e il nulla assoluto (un’opposizione che, in quanto è opposizione al nulla assoluto, è identica all’essere, e che, in quanto è opposizione all’essere, è identica al nulla assoluto). Il significato dell’«esistere» non può essere trasceso (nemmeno da tale vacuità), proprio in quanto l’«esistere» è il «significato» stesso, il quale si contrappone già da sempre e per sempre (in modo processuale) al «non-significato», cioè al «non-esistere». Non si può dire, si spieghi meglio, che l’unione del «significato» e del «non-significato» eccede sia l’uno che l’altro, appunto perché tale unione, in quanto significante, è identica all’essere (ovverosia al significato, che include l’affermazione parziale del non-significato), e in quanto non-significante, è identica al nulla assoluto.
Si può dire, infine, che il Buddhismo Zen (questa parola derivando, da ultimo, dal sanscrito dhyana, ossia meditazione) sia un Estremismo del Buddhismo Induista a cui si rivolge soprattutto Nagarjuna: porta all’estremo, cioè, quella vacuità che, nello Zen, assume i caratteri del vivere la propria vita soffermandosi in senso assoluto sul preciso istante in cui si vive. Questa riflessione, tuttavia, è negata dalla verità autentica del Tutto, perché è vero che ogni istante è in realtà il Tutto stesso di cui l’istante è (anche) istante (cioè parte di sé in quanto Tutto), ma il Tutto autentico non può essere la vacuità o ciò cui si riferisce in particolare lo Zen, perché è necessario che ogni istante, nel suo essere il Tutto, sia ogni altro istante, e che la totalità degli istanti sia la rimembranza del passato e la previsione del futuro (sebbene una rimembranza e previsione siffatte siano prevalenti nel sentiero del Ritorno, nella Prima Volta prevalendo, invece, la dimenticanza del passato e la non-previsione del futuro). Non solo: anche in quanto è parte, ogni istante è, benché in modo finito, ogni altro istante.


5.  Il Confucianesimo (Confucio, Mencio) e il
Neoconfucianesimo (Zhu Xi); il Legismo (Han Fei, Li Si); il Taoismo (Laozi, Zhuāngzĭ); lo Shintoismo (forme di Panteismo, Panenteismo, Panpsichismo e Animismo)

La buona fede di Confucio (551-479 a.C., filosofo cinese, vissuto nel periodo antecedente alla diffusione del Legismo, fondato dai filosofi cinesi Han Fei – vissuto nel III sec. a.C. – e Li Si, 280-208 a.C.), con la quale egli si propone di educare l’uomo portandolo nella condizione in cui ogni individuo sia moralmente legato ad ogni altro individuo – in una perfetta armonia che appaia come la perfetta società –, non può essere quella autentica società perfetta quale appare all’interno della dominazione della volontà pubblica di potenza. L’Etica (la Moralità) è imperfetta se viene concepita all’interno della dominazione della volontà privata di potenza, una volontà, quest’ultima, che è appunto dominante nel Confucianesimo (al quale aderisce, tra gli altri, il filosofo cinese Mencio, 370-289 a.C.). (Si parla poi, anche, di Neoconfucianesimo – 960-1279 d.C. –, il cui esponente principale è il filosofo cinese Zhu Xi, 1130-1200 d.C.).
I proponimenti, le buone intenzioni e le aspettative di Confucio sono tutti modi acerbi e immaturi rispetto al prevalere della consapevolezza tecnica di voler attuare il maggior numero possibile di scopi in relazione alla totalità degli individui (rimanendo comunque nella dimensione del Regno SP). La classe delle norme sociali, di riti e cerimonie (una classe che Confucio chiama il li, cioè l’ordine), al di sotto dell’ordinamento divino (cioè del Tien, «il Cielo») che decide comunque il corso degli eventi, tale classe (inclusa in ciò che si crede sia appunto il Tien) appare all’interno del prevalere del carattere ideologico della volontà di potenza quale si mostra inclusa nel Regno SP.

Per quanto invece riguarda il Taoismo (o Daoismo, presumibilmente fondato dal filosofo cinese Laozi – circa 604-531 a.C. –, e al quale appartiene anche l’altro filosofo cinese Zhuāngzĭ, 369-286 a.C.),  lo si può ricondurre a quello stesso di cui si persuade il Buddhismo, in particolare quello di Nagarjuna e quello Zen. Esso sostiene, infatti, che il Tao (cioè la via), essendo (creduto come) la fonte assoluta da cui tutto proviene – una fonte che dimora oltre l’essere e il non-essere, e che quindi dà l’esistenza al Tutto esistente –, non può essere nominato, è ineffabile, è l’assolutamente indefinito, ossia è l’inesprimibile. Dal Tao deriva anche il Te (tradotto in genere con virtù), ovvero ciò che determina il differire tra le cose, un differire che è lo stesso modo in cui il Tao è in qualche modo manifesto nel mondo terreno.

Affine al Taoismo è lo Shintoismo (Religione Giapponese affermatasi probabilmente alla fine dell’ultimo Periodo Jomon, che va da circa il 10000 a.C. fino al 300 a.C.), secondo il quale è il Matsubi a costituirsi come l’identità universale (l’energia cosmica) attraverso cui si genera tutto ciò che da essa si distingue (il Matsubi corrispondendo dunque, si può dire, al principio del Tao). Non prevalendo, in tale Filosofia, l’autentica riflessione sul Tutto infinito (che include sé stesso come finito), la Religione dello Shintoismo è testimonianza di una forma di Panteismo (legata a forme di Panenteismo, Panpsichismo, Animismo) che non rende giustizia al vero senso dell’essere quale appare come la necessità che ogni essente sia, appunto, ogni essente cioè anche un certo essente. Nello Shintoismo, le cose del mondo (tra cui i Kami, cioè le presenze spirituali nel mondo) sono il frutto della produzione del Matsubi, il quale è tuttavia scisso in due grandi sfere cosmiche, quella della radice positiva (Yo) e quella della radice negativa (In), l’avvicendarsi delle quali conduce appunto alla manifestazione dei Kami e di tutte le forze naturali.


Nudità di ogni menzogna



Riporto questo passo di Silenzi e respiri del destino (p. 48) adorato dal "tu" a cui le mie poesie si rivolgono.

[In Matematica dello Spirito si dice infatti: «Tutto ciò che si trova ancora contornato dal (finito) non appagamento, che scaturisce dal mancato rilevamento della decifrazione dei crepuscoli, delle tracce che lo Spirito infinito lascia nelle membra di ogni coscienza, è destino che venga oltre-passato dal castello, sempre più ampio, in cui a regnare è la simultaneità di ogni coscienza. Ogni simulacro appropriato alle coscienze finite è impossibile che, ombreggiando l’intima natura che in esse alberga, prenda spicco “per sempre”. Ogni menzogna che ognuno di noi dice a sé stesso e ad ogni altro, credendo di inventare e di diventare dei “personaggi”, è destino che si spogli e, nuda, mostri (ad ognuno di noi, nella totalità che ci unisce) ciò che essa in verità è» – pp. 14-15].