martedì 27 gennaio 2015

Su "Le Materie Prime della coscienza" (un altro estratto)



«Su Le Materie Prime della coscienza» è un estratto dell’«Introduzione» (del medesimo libro)


Quest’opera è la continuazione del Tragico Amore (cioè del proseguimento del mio primo saggio La struttura concreta dell’infinitonegare la «storia dell’uomo», oltrepassando il pensiero di Severino).
Le Materie Prime della coscienza è un ben più ampio arricchimento del modo in cui il linguaggio designante la verità autentica è assegnato al proprio eterno sviluppo. L’affacciarsi, in questo libro, del prevalere della soluzione di nuovi problemi filosofici è l’affacciarsi del prevalere dell’esplicitazione di ciò che nei miei saggi precedenti rimane prevalentemente implicito. Tutto ciò che nasce (si affaccia, affiora, sopraggiunge, incomincia) e muore (si dilegua, si congeda, finisce, si conclude) è infatti il nascere e morire del prevalere di tutto ciò che nasce e muore; non solo: tutto ciò che nasce e muore appare all’interno di sé stesso in quanto è la struttura infinita dell’essere, la quale non nasce e non muore (nel senso che di essa nasce il prevalere del proprio non affiorare e non dileguarsi nel nulla assoluto). Inoltre, tutto ciò che prevale è tale rispetto a tutto ciò che non prevale: dapprima, è necessario che prevalga la contraddizione delle finite parti cangianti (che il Tutto eterno avvolge), per poi lasciare che prevalga la verità del Tutto eterno: la parte prevale su sé stessa in quanto Tutto (che non prevale), e il Tutto prevale su sé stesso in quanto parte (che non prevale): il prevalere della parte (cioè la Prima Volta, ossia il tracciato finito del prevalere del dolore cioè del divenire cioè della tragicità cioè dell’unione tra l’oblio del passato, l’indecifrabilità del presente temporale e l’imprevedibilità del futuro) è la parte come differente da sé in quanto Tutto, e il prevalere del Tutto (cioè il Ritorno, ossia il sentiero limitato del prevalere della quiete cioè dell’eternità cioè dell’Amore cioè dell’unione tra la rimembranza del passato, la decifrazione del presente temporale e la previsione del futuro) è il Tutto come differente da sé in quanto parte.
Ogni coscienza (cioè ogni essente, l’Io assoluto del Tutto infinito ovverosia dell’Uno indivisibile) è, dall’eternità e per l’eternità, identica a sé stessa, ossia è, appunto, ogni coscienza; e lo è attraverso un numero finito di modi in cui ogni coscienza stessa, in quanto volontà errante di potenza (cioè in quanto parte, modo, differenza, tempo, luogo, individuazione), si illude di essere soltanto una delle coscienze che, nella loro identità infinita, sono lo stesso Uno infinito che, già da sempre e per l’infinità, si oppone al niente assoluto. «Ognuno di noi» è in verità, cioè, la visione eterna delle proprie finite modalità attraverso le quali il prevalere delle coscienze dell’Universo si fa innanzi, vive in un certo modo temporale e muore in eterno.
In questo preciso istante appare, nello scenario che io vedo e cioè che io stesso sono, un certo numero di essenti che la mia mente, pur sapendo che essi son segni di altri istanti (sia della mia vita che di ogni altra che appare nell’intero Universo che io stesso sono in verità) e il preciso volto specifico che mi caratterizza distinguendomi dall’altrui coscienza, non è prevalentemente in grado di decifrarli nel loro volto concreto, e quindi li interpreta (ossia vuole alterare il loro vero volto) chiamandoli «computer», «tavolo», «libro», ecc., e, per quanto riguarda quel preciso volto specifico, «quel certo individuo umano, Marco, che in questo istante scrive sul computer, ecc.».
L’Uno infinito vede la sincronia dei propri istanti nel modo diacronico in cui dal prevalere della differenza specifica tra le «Materie Prime» procede verso il prevalere della relazione specifica tra queste stesse Materie Prime; l’unione di queste due prime prevalenze è la Prima Volta, seguita dal Ritorno delle stesse coscienze della Prima Volta.
Le Materie Prime sono particolari specificazioni (del Tutto) che, nel loro semplice distinguersi, prevalgono a partire dalla primissima serie di eventi che l’Uno eterno include (il primo dei quali è la vita dell’Inizio); mentre, tali Materie Prime, in quanto specificatamente intrecciate tra di loro, formano una serie finita di «Regni Di Similarità Prevalenti» (tra cui il «Regno Della Similarità Prevalente» in cui consistono, almeno, il «regno umano» e il «regno animale»), i quali Regni incominciano a prevalere in seguito al prevalere di quella primissima serie di eventi.
Il sottotitolo di questo saggio, cioè «con un Manuale di storia della Filosofia, agli occhi della verità autentica», si riferisce appunto allo svolgimento interno al Regno Della Similarità Prevalente, e cioè alla dominazione del regno animale, della «Filosofia Mitico-Orientale», della «Filosofia Occidentale», della «Filosofia Planetaria» e della «Filosofia Del Regno Della Similarità Prevalente» (quest’ultima Filosofia essendo la «volontà pubblica di potenza», le precedenti Filosofie – compresa quella del regno animale – formando la struttura della «volontà privata di potenza», e tenendo presente che la volontà privata di potenza è inclusa in sé stessa in quanto volontà pubblica di potenza). Ma, poi, quel sottotitolo si riferisce, propriamente, all’intero svolgimento che dal prevalere della Filosofia (cioè della coscienza) dell’Inizio va verso il prevalere della Filosofia della vita dell’Ultimo; ed è proprio per questo motivo che, in quel sottotitolo, compare l’espressione «agli occhi della verità autentica», nel senso appunto che, al di là di alcuni problemi (che rimangono ancora aperti) intorno a determinati elementi delle varie dominazioni interne al Regno Della Similarità Prevalente, la struttura di fondo della volontà interpretante che intende testimoniare il Tutto autentico degli eterni è una struttura che, nel suo essere accerchiata da sé stessa in quanto volontà non-interpretante della verità infinita dell’Uno, è manifesta nella sua innegabilità.

Questo libro si chiude, poi, con l’esposizione del fondamento per il quale si stabilisce il senso autentico dei «numeri» (cioè delle differenze del Tutto), in particolare del «numero pari», del «numero dispari», delle «operazioni aritmetiche» e del «numero cardinale».

Gorgia (estratto de "Le Materie Prime della coscienza")



Estratto del par. 2, cap. 2°, [A.], III, parte seconda; estratto, cioè, de «La Prima Sofistica: Protagora; Gorgia; Trasimaco, Callicle, Seniade (e altri); Filosofia Medica (Ippocrate di Cos); Filosofia Drammaturgica (Euripide); Erodoto, Tucidide di Atene»

Gorgia

Anche nei confronti dell’estremo e lapidario linguaggio di Gorgia (di Lentini, circa 485-375 a.C., filosofo greco; opere principali: Sulla natura o sul non essere, Encomio di Elena, Apologia di Palamede) prevalgono le interpretazioni (ossia le volontà di alterare l’inalterabile). In realtà, se esiste un tale linguaggio (rimanendo ancora un problema stabilire in che cosa consistano precisamente i linguaggi che appaiono nel loro differire da quello che appare nella propria attuale coscienza, in quanto appunto differente dalle altre coscienze), è inevitabile che quando Gorgia sostiene che «nulla esiste» voglia dire che nulla, di ciò che viene creduto come manifesto al di là del «mondo» della cui esistenza tutti (Gorgia per primo) siamo convinti, esiste; che è cosa ben diversa dal dire che, in assoluto e in tutti i modi, è necessario affermare che nulla è (soltanto se esistesse una coscienza ignorante separata dalla verità, soltanto in questo caso – in realtà impossibile – potrebbe essere accettata la tesi che né dell’essere né del non essere si può dire che è).
Gorgia, col suo linguaggio, intende mostrare (nonostante lo mostri debolmente) che qualsivoglia tesi a favore della esistenza di un arché trascendentale (l’acqua di cui parla Talete e così via fino al Noûs di Anassagora e all’insieme infinito di atomi a cui si riferiscono Democrito e Leucippo) è una tesi che non può avere un fondamento innegabile, non può avere un valore assoluto. La riflessione di Gorgia è quindi una (magra) anticipazione del modo in cui è destino che il dominio della volontà privata di potenza (una volontà che, appunto, vuole affermare una tesi siffatta) venga lasciato alle spalle dal dominio della volontà pubblica di potenza (una volontà che, invece, rileva inevitabilmente l’incongruenza della volontà privata).
Tale anticipazione è debole, si sta dicendo, perché Gorgia non dice quale sia il motivo fondamentale e necessario per cui bisogna affermare che la verità è soltanto questo nostro agire e l’agire di tutte le coscienze possibili (nel quale agire si ha fede, cioè fermo restando che la verità autentica vede l’impossibilità che la volontà di agire ottenga ciò che essa vuole). Se, infatti, prevalesse in lui la conoscenza di questo motivo, non aggiungerebbe, dopo aver detto che non può esistere né l’essere né il non essere, che «se qualcosa esiste è inconoscibile», poiché, così aggiungendo, ammette la possibilità della non inevitabilità della prima tesi («nulla è») – e quindi, se esistesse in lui un siffatto prevalere, non aggiungerebbe neppure che «se qualcosa è conoscibile, è incomunicabile».
Tuttavia, stando all’argomentazione della prima tesi («nulla è»), non è un’argomentazione di poco conto. Difatti, data la necessità dell’eterno prevalere dell’illudersi di non essere l’autentico Tutto eterno che appare processualmente (anche nella coscienza di Gorgia apparendo tale prevalere eterno), e data l’essenziale incongruenza di tale illudersi in quanto volontà privata di potenza, il discorso di Gorgia, riguardo a quella prima tesi, appare in certo modo coerente.
Si prenda come esempio questa significativa sequenza logica: «[...] se l’essere è eterno [...] non ha alcun principio [...] Poiché ha un principio tutto ciò che nasce; ma l’eterno, essendo per definizione ingenerato, non ha avuto principio. E non avendo principio, è illimitato. E se è illimitato, non è in alcun luogo. Perché se è in qualche luogo, ciò in cui esso è, è cosa distinta da esso; e così l’essere non sarà più illimitato, ove sia contenuto in alcunché; perché il contenente è maggiore del contenuto, mentre nulla può esser maggiore dell’illimitato; dunque l’illimitato non è in alcun luogo [...] E neppure è contenuto in se stesso. Perché allora sarebbero la stessa cosa il contenente e il contenuto, e l’essere diventerebbe duplice, cioè luogo e corpo; essendo il contenente, luogo, e il contenuto, corpo. Ma questo è assurdo. Dunque l’essere non è neppure in se stesso. Sicché se l’essere è eterno, è illimitato; se è illimitato, non è in alcun luogo; e se non è in alcun luogo, non esiste» (Sesto Empirico, Contro i matematici).
L’isolamento voluto tra «illimitato» e «luogo» e tra «eterno» e «ciò che nasce» è dato dal fatto che (secondo la coerenza dell’argomentazione di Gorgia), prevalendo la fede (in ogni coscienza, compresa quella di Gorgia) che l’innegabilità della manifestazione del «luogo» di «ciò che nasce» (del morente e di ogni ente cangiante) non sia il «luogo» illimitato (che cioè, essendo assolutamente legato al Tutto, è il Tutto stesso nel suo non venire e non rientrare nel nulla, ossia nel suo non esser limitato da qualcosa di ulteriore al Tutto già eternamente posto, tale affermazione essendo la stessa affermazione che il nulla assoluto limita il Tutto, ossia che nulla limita il Tutto, ossia che, al di fuori del Tutto infinito, non può esistere alcun essente che lo limiti) dell’eternità (= esser sé = apparire) di «ciò che nasce» (il senso autentico dell’«eterno» essendo il senso stesso dell’«illimitato»), è inevitabile concludere che l’«eterno illimitato», non potendo essere (secondo quella fede) in alcun «luogo» in cui appare «ciò che nasce» (e che muore), non può esistere.

Al di fuori della congruenza e incongruenza di tale fede appare, per l’appunto, che ogni cosa (= essente = coscienza) diveniente è illimitata, cioè eterna, cioè non sporgente e non rientrante nel nulla, è cioè sé stessa, è manifesta; ed appare, anche, che il «contenente» contiene sé stesso come «contenuto» (questa stessità essendo lo stesso eterno «contenente», identico al «contenuto», quest’ultimo essendo, in quanto distinto da sé stesso nel suo esser «contenente», questa medesima distinzione eterna, cioè la distinzione di un’uguaglianza, ovvero dell’uguaglianza eterna tra «contenente» e «contenuto» – e tenendo presente che tale distinzione eterna è la distinzione tra il «contenente», come distinto da sé stesso in quanto «contenuto», e il «contenuto», come distinto da sé stesso in quanto «contenente», e cioè, rispettivamente, tra il prevalere eterno del «contenente», su sé stesso in quanto «contenuto», e il prevalere eterno del «contenuto», su sé stesso in quanto «contenente»).

lunedì 19 gennaio 2015

"Le Materie Prime della coscienza": Prefazione (di Alberto Maso)



 [L’amico Alberto Maso (n. 1991) – attento lettore dei miei scritti e, in particolar modo, di quelli di E. Severino – è uno studente di Filosofia, presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia].

È un piacere per me poter introdurre questa nuova opera di Marco Pellegrino, filosofo autodidatta e conoscente, il quale, ormai da alcuni anni, sta contribuendo a dare nuova luce alle molte questioni da sempre aperte della Filosofia attraverso un rigore argomentativo e una profondità filosofica sempre più rari nel panorama attuale. Questo terzo volume, il naturale punto d’arrivo de La struttura concreta dell’infinito e Del tragico Amore, si configura in maniera nuova, a partire dal contenuto in esso presente, lontano dalle mode in cui rimane ingabbiata molta Filosofia non curante del pensiero critico. Pellegrino si «muove» e commuove gli animi (per l’alto livello speculativo), facendo parlare i suoi scritti a partire da una visione totalmente estranea a qualsiasi contenuto o atteggiamento irrazionale. La sua è Filosofia pura e nello stesso tempo concreta: le due qualità, solo apparentemente in contraddizione secondo il precetto del cosiddetto «senso comune», trovano in questi scritti un’intima vicinanza poiché esse si strutturano in un rapporto complementare, di modo che l’identità che lega tali qualità riesca a trasmettere legittima sostanzialità alla natura del Tutto. Il Tutto di per sé non avrebbe bisogno di alcuna indicazione, se non fosse che esso, in virtù del suo stesso linguaggio e cioè della sua pur sempre articolazione nelle diverse modalità espressive via via producentisi, esibisce sé stesso mostrandosi in una costante concettualità funzionale all’esplorazione minuziosa dei suoi contenuti e delle sue differenziazioni; concettualità, dunque, necessaria e in grado di dire il contenuto senza per questo inglobarlo in una sterile necessità. In tal senso, i grandi temi che hanno accompagnato sin dall’inizio la Filosofia (che per essa costituiscono il suo nettare e il suo sviluppo) vengono rischiarati sulla base di una nuova esplorazione del fondamento della materia. Tale esplorazione – e più specificatamente lo spirito che muove da essa – credo richiami molto quanto Platone ci ha trasmesso in eredità trattando nel Fedone della «seconda navigazione»: in epoca moderna, arenati in una situazione senza via d’uscita e in un mondo la cui sostanza continua a perdere sempre più spessore a causa dell’estensione pubblica del prodursi delle diverse forme di relativismo, abbracciare i remi e mettersi nuovamente all’opera – soprattutto se tale opera si coniuga filosoficamente – può comportare difficoltà e sconforto. Pellegrino è ben consapevole di questo e ciononostante, motivato verso una precisa direzione, decide di camminare e remare, nel riconoscimento della pur sempre vitale forza della Filosofia. Il suo è e continua ad essere un richiamo all’antico. L’autentica Filosofia, come ben rilevato dal filosofo bellunese Giovanni Romano Bacchin e come ben sa l’Autore, è un costante riconvocare l’antico al giudizio e allo sguardo. Mettersi in tale condizione significa (come Bacchin rileva) «per la Filosofia tornare su se stessa, dandosi l’antico come nuovo, restituendosi perennemente a se stessa». Ritornando all’antico si riscopre quella medesimezza o stessità, a cui peraltro lo stesso Autore fa riferimento, che fa perenne il filosofare – essenzialità, questa, che si rivela filosofando.
Il farsi carico della ricerca in cui consiste il filosofare significa rilevare il modo in cui tale ricerca disvela la presenza, in tutta la sua forza, del vero come assente; e ciò comporta, contemporaneamente, il capovolgimento dell’impostazione classica, ritenendo realmente la ricerca non (semplicemente) riducibile alla situazione singola di colui che ricerca. Tema, questo, fin troppo eluso dal sapere scientifico – Pellegrino spiegando, tuttavia, che la vera «Scienza» è la stessa «Filosofia» e che questa stessità include sé medesima come autentica (e non riduttivistica) «Tecnologia» (giacché ciò che ho appena chiamato «sapere scientifico» è, secondo il linguaggio dell’Autore, il riduttivistico sapere «tecnologico») –, un sapere che, nel ritenersi al di sopra di tutto e di tutti, crede di potersi deliberatamente sbarazzare della Filosofia. Lo sapeva bene Hegel (al quale Pellegrino dedica un interessantissimo capitolo in questa nuova opera), e lo potrebbe capir bene, se solo si mettesse nella condizione di poterlo capire, anche quel medesimo sapere scientifico di cui si sta parlando, occupato nel liquidare con fin troppa sbrigatività l’inesistenza dei problemi prettamente filosofici riducendoli a problemi di linguaggio. Ciò che personalmente trovo radicale, soprattutto sensatamente ad uno sguardo sul fondamento, è la meraviglia che pervade costantemente l’intera produzione filosofica e letteraria di Pellegrino. Come può, ci si chiederà, un testo filosofico aver il potere di meravigliare? Si può rispondere affermativamente se si tiene in mente proprio il senso della ricerca di cui sopra si parlava. Meravigliarsi significa tornare sui temi (la vita, la morte, il rapporto dell’uomo con il cosmo, il desiderio...) che da sempre hanno alimentato la curiosità umana; grazie ad essa, infatti, diamo energia ai nostri stessi prodotti e al nostro stesso filosofare.
A questo punto mi sembra doveroso richiamare alla memoria, benché in maniera molto breve facendo un torto ai contenuti, lo sviluppo del percorso filosofico di Pellegrino. La sua produzione, infatti, segue temporalmente tre momenti, corrispondenti alla pubblicazione delle tre singole opere. Con ciò non si intende dire che ogni opera sia separata dalle altre, poiché in questo modo si interpreterebbero in maniera scorretta le stesse intenzioni dell’Autore. Ciò che segue, dunque, potrebbe essere inteso come un insieme di note a margine volte a restituire solamente un riepilogo veloce del percorso del filosofo.
Il primo libro, La struttura concreta dell’infinito, si costituisce come uno studio che, muovendo da ciò che l’Autore intende specificatamente indicare, critica analiticamente il linguaggio di Emanuele Severino – un linguaggio che viene inteso, in quel libro, come una differente modalità di riferirsi al medesimo significato, ossia di essere un differente modo in cui la totalità dell’essere è tale. Pellegrino in questo scritto si propone di portare alla luce (attraverso argomentazioni serrate e con un rigore pari a pochi altri e sempre più rari teoreti) la tesi che l’infinito sia ogni cosa e costituisca la sua costante presenza nella concretezza di ogni esperienza reale; tali tematiche si accompagnano alla riflessione volta ad evidenziare come prevalga ancora l’illusione, da parte di tutta la Filosofia del nostro tempo, di non poter vedere tale concretezza propria dell’infinito. (Si renda noto, inoltre, che il confronto con il linguaggio di Severino, partendo da questo libro, sarà poi costante in tutti i successivi lavori dell’Autore).
Il secondo libro, Del tragico Amore, oltre ad esplicitare il cuore delle tematiche presenti nel precedente scritto, risponde ad alcune domande lasciate aperte, in particolar modo focalizzandosi su concetti essenziali quali la morte, il dolore, la felicità ed insieme allargando il discorso per poter comprendere in che maniera intendere espressioni quali «felicità autentica» e «vero Amore» rapportati all’infinito (cioè al Tutto eterno) che ogni vita è; pertanto, vengono specificate le diverse tappe con cui lo stesso infinito vede il proprio sviluppo, attraverso la spiegazioni di concetti come «la Prima Volta», «il Passaggio», «il Ritorno». Tentar qui una semplificazione di che cosa indichino queste espressioni è compito assai difficile e poco praticabile; basta però qui sottolineare come incessantemente l’Autore non faccia altro che spiegare come l’autentica vita sia quella maestosità in cui consiste l’eternità infinita dell’Intero, non mancando di indicare come ogni esperienza del Tutto sia l’esperienza di tutti Noi, proprio per il fatto che Noi siamo quel Tutto stesso che esperisce ogni esperienza. Sottolineo, inoltre, come nel Tragico Amore siano innumerevoli gli incontri, nel senso più alto del dialogo filosofico, con altri interlocutori e in altri campi: si spazia da un confronto col discorso filosofico di Severino, sia direttamente rivolgendosi ai suoi lavori, sia indirettamente attraverso il confronto con Roberto Fiaschi – studioso da anni di tale discorso (segnalo il suo blog, emanueleseverinorisposteaisuoicritici.it, curato con passione e serietà) –, per passare poi al rapporto tra il linguaggio dell’Autore e quello «tecnologico». La ricchezza concettuale, insomma, si rivela in tutta la sua portata fino a culminare nel terzo libro.
La presente opera, infatti, dimostra di avere un intento diverso rispetto alle altre due. Ben consapevole che prima o poi sarebbe stato necessario un confronto diretto con l’intera storia della Filosofia, l’Autore offre al lettore un vero e proprio «Manuale» dal quale partire per poi analizzare autonomamente, secondo la luce nuova offerta dall’intera Opera pellegriniana, il percorso dell’umanità sino ai nostri giorni. È di gran lunga evidente che l’Autore non può non sapere che esplicitare la diversa ricchezza propria di ogni «materia della coscienza» (ossia di ogni specificazione del Tutto) non basterebbe a contenere un singolo volume. Ecco perché l’intenzione è quella, come si ricava dal sottotitolo, di ripercorrere «agli occhi della verità autentica», cioè in riferimento a tutto ciò che Pellegrino ha scritto sin dall’inizio, i singoli momenti dell’intera storia del pensiero filosofico. Il lavoro finale è monumentale e lascia al lettore la libertà per poter essere affrontato secondo i propri tempi ed esigenze. L’obiettivo è quello di permettere allo studioso di potersi dedicare all’approfondimento di ogni singola pietruzza del cammino, invitandolo però ad indirizzare il proprio studio nel rapporto e nel continuo dialogo con la verità autentica del Tutto, in modo tale da vedersi alla fine trasfigurata e chiarificata ogni singola pietruzza oggetto di indagine.
Il lettore attento avrà a questo punto compreso la necessità di ritornare a quanto si diceva all’inizio rispetto alla ricerca propria del filosofare. Mentre il «senso comune» è per lo più incapace di indicare le diverse modalità in cui la verità si mostra, la Filosofia si appresta a tale compito, non separandosi dalla realtà a cui fa costante riferimento quel «senso comune», bensì chiarificando e delucidando intorno alle questioni massime proprie di una siffatta realtà. Il dono di Pellegrino è dunque quello di preservare lo spirito del filosofare e nello stesso tempo di continuare a coltivarlo, nella convinzione che ripercorrere i temi cardine dell’ontologia significhi contribuire ad esprimere compiutamente e concretamente quella verità che ognuno di Noi è e che non può fare a meno di mostrarsi in tutta la sua pienezza in ogni nostro singolo attimo di vita.

venerdì 2 gennaio 2015

"Quarta di copertina" de "Le Materie Prime della coscienza"



QUARTA DI COPERTINA (a cura di Andrea Berardinelli)


Con Le Materie Prime della coscienza l’Autore prolunga il discorso che da La struttura concreta dell’infinito conduce a Del tragico Amore.
In questo saggio, Pellegrino sviluppa ulteriormente quei tratti non ancora esplicitati nei suoi precedenti scritti, frutto di una profonda riflessione scaturita dalla necessità del superamento delle risultanze speculative di E. Severino. Si fanno innanzi, così, nuove teorizzazioni sulla struttura degli eventi, cioè dei finiti modi in cui l’Infinito si mostra in eterno.
Le Materie Prime della coscienza si presenta come l’opera più audace e matura dell’Autore: si approfondiscono i temi fondamentali dell’esistenza, gli enigmi ancestrali che circondano la vita nelle sue manifestazioni di splendore nonché di dolore, per giungere a nuove analisi sul senso della morte le quali oltrepassano le ingenue interpretazioni del medesimo.
Si compie, inoltre, un ulteriore e decisivo passo, confrontandosi con tutta l’indagine speculativa dagli albori della civiltà ad oggi. Qui troviamo l’esposizione di una storia della filosofia mondiale, in cui non ci si ferma all’analisi del dominante pensiero occidentale. Muovendosi all’interno della sua teoresi, Pellegrino avvia un processo di chiarificazione dei passi essenziali che il pensiero compie nel suo divenire, e che hanno determinato e determinano ciò che noi oggi siamo per lo più persuasi di essere.

Quest’opera rappresenta, da ultimo, una tappa fondamentale per il futuro della filosofia: la strada verso una nuova alba del pensiero forte, non smentibile, si alimenta del lavoro di Pellegrino, e torna a procedere verso lo spicco della luce più intensa della verità assoluta.