martedì 21 luglio 2015

"Ricordare" e "Rimembrare"



Riportiamo qui un estratto di Del tragico Amore  (p. 242).


In quanto il prevalere del finito (sull’infinito) si distingue da quello dell’infinito (sul finito), il prevalere dell’infinito si manifesta, nel prevalere del finito, come un futuro senza annunzio – «senza annunzio» [...], ossia non annunciato, o preannunciato in modi ancora astratti, come (ad esempio) questo mio linguaggio, rispetto alla concretezza sempre più ampia dell’annunzio che (come vedremo, soprattutto nel cap. 4°), con la morte dell’ultimo accadimento del prevalere del finito, annuncia, appunto, tutto il futuro che è tale rispetto a quella morte. E il prevalere del finito si manifesta, nel prevalere dell’infinito, come un passato [prevalentemente] ricordato, rimembrato – se nel termine «ricordare» (cfr. Glossario) risuona maggiormente il re-accordare, ossia la vibrazione delle corde del cuore (re-cordor è imparentato con re-cor: «ricordare» è anche un ri-portare nel cuore) all’unisono, e cioè, al di fuori del senso metaforico, il riaffiorare delle stesse esperienze ricordate, ferma restando la differenza ineliminabile tra l’affiorare e il riaffiorare, i quali si strutturano, rispettivamente, come la Prima Volta (cioè il prevalere del finito) e il Ritorno (ossia il prevalere dell’infinito); e se col termine «rimembrare» ci si rivolge al re-membra, cioè al ricordare attraverso la corporeità (giacché quando in quest’opera viene usato il verbo «ricordare» ci si rivolge a quello stesso cui ci si riferisce quando si nomina il «rimembrare»).

sabato 18 luglio 2015

Il sopraggiungere non sopraggiunge


Riportiamo un breve estratto del par. 13 del cap. V de La struttura concreta dell'infinito.


[...] quando Severino scrive: <<Col sopraggiungere della terra, non solo la terra incomincia ad apparire, ma dello sfondo incomincia ad apparire il suo apparir già prima che la terra incominci ad apparire […] Nello sfondo appare già da sempre, come determinazione persintattica, la necessità che la terra sopraggiunga, ma non vi può apparire la determinazione concreta con la quale la terra si affaccia per la prima volta sullo sfondo, incominciando a sopraggiungere>> (La Gloria, p. 401), si aggrovigliano in questo passo delle contraddizioni che vengono espresse da quanto segue.
                Prima di tutto, che la terra (il sopraggiungere) sopraggiunga – che la terra, cioè, appaia <<incominciando a sopraggiungere>> – non può significare che, quando si pone un siffatto sopraggiungere, <<dello sfondo incomincia ad apparire il suo apparir già prima che la terra incominci ad apparire>>. Lo sfondo, autenticamente concepito, è infatti se stesso solo in relazione agli essenti di cui appare il sopraggiungere e il cessare (di cui appare cioè il divenire). Del sopraggiungere si può dire che sopraggiunge (che cioè incomincia a sopraggiungere), solo se questo dire è significante come l’assoluta identità semantica tra il modo linguistico in cui si dice che il sopraggiungere sopraggiunge e l’altro modo linguistico in cui si dice che il sopraggiungere esiste (appare, è essente, è eterno). Se il sopraggiungere del sopraggiungere è inteso come in qualche modo (o, addirittura, assolutamente) diverso dal sopraggiungere di cui si afferma il sopraggiungere, allora è corretto affermare che il sopraggiungere non sopraggiunge, ma che è, appunto, essente, ossia è il sopraggiungere.
                Ciò vuol dire che non solo non viene ad aggiungersi il sopraggiungere <<come determinazione persintattica>> (della <<necessità che la terra sopraggiunga>>, appunto), ma non può aggiungersi nemmeno il sopraggiungere della <<determinazione concreta con la quale la terra si affaccia per la prima volta sullo sfondo>>.
                Il sopraggiungere della prima configurazione dell’eterno cammino finito degli essenti (il sopraggiungere cioè di quella <<determinazione concreta>>) è essente, ossia non incomincia a sopraggiungere – proprio perché ogni sopraggiungere è eternamente se stesso, cioè non emerge e non sprofonda in ciò che esso non è –, e pertanto non può sopravvenire rispetto a un orizzonte che si manifesti <<già prima che la terra incominci ad apparire>>. Precedentemente all’aggiungersi del primo contenuto incominciante non può apparire (esistere) nulla, perché, se qualcosa apparisse, quest’ultimo sarebbe un altro contenuto incominciante, e quindi sarebbe l’impossibilità che quella prima materia incominciante sia la prima. Non può esistere cioè il passato del più antico passato: il modo iniziale (il primo modo) in cui l’eterno sopraggiunge non è preceduto da alcunché che sia passato, nemmeno da uno sfondo che sia in attesa di quella <<determinazione concreta>>; quest’attesa attenderebbe infatti un evento futuro che nel suo sopraggiungere la oltrepasserebbe, ossia passerebbe oltre di essa, e pertanto quest’ultima passerebbe, sarebbe un passato (che in verità è impossibile).
                L’essente embrionale che affiora nell’attualità – l’essente che, già da sempre e per sempre, dà vita, avvia il sentiero finito degli eterni – è la posizione, appunto, dell’essente embrionale che affiora nell’attualità (la quale è l’essente stesso), che affiora cioè trovandosi già da sempre ed eternamente all’interno di sé in quanto è la totalità infinita dello sfondo.

domenica 5 luglio 2015

La "re-pressione" come oltrepassamento originario della "de-pressione"



Il seguente scritto è un brevissimo estratto di Matematica dello Spirito.


Percorrendo il sentiero della Prima Volta si è per lo più inclini a credere (illudendosi) che la volontà di fare sia un che di essenzialmente positivo. A volte è dominante la fede (errante) che più si è desiderosi di agire, di compiere sempre differenti e più potenti azioni, e più si è valorosi e pieni di virtù; tutto ciò volendo realizzarlo con «creatività», inventando ed escogitando sempre nuovi «piani» (o «trucchi») per sopravvivere il più a lungo possibile (sfidandosi l’uno con l’altro, facendo a gara per chi si ritiene sia il più ingegnoso, astuto, furbo – ingegno, astuzia e furbizia essendo, nella verità dell’infinito, conseguenze dell’autentica «stupidità», o «insipienza», «ignoranza» –, capace di allontanare la morte, come accade nello sport o in qualsiasi altro sottoprodotto ideologico – di tipo ad esempio sanitario, scolastico, giuridico, militare, artistico, ecc.).
La volontà errante di fare è la causa autentica di ogni malattia individuale, anche delle cosiddette «lesioni organiche». Che una volontà così intesa sia assolutamente soddisfatta è impossibile, illusorio. La contraddicentesi volontà pubblica di fare cioè di testimoniare l’autentica verità dell’essere è parzialmente soddisfatta (e cioè, anche, parzialmente insoddisfatta), nel senso che tale volontà, volendo indicare l’innegabile volontà veritativa del Tutto sempr’acceso, abbassa sempre di più la propria intensità luminosa, in corrispondenza della sempre crescente intensità secondo cui si illumina la verità degli eterni. Siamo destinati a voler fare sempre meno, in virtù dell’accorgimento sempre più terso ed esaustivo di esser già da sempre e all’infinito l’intero tracciato limitato dell’Universo.
Ci si illude che la repressione sia un che di negativo, e che «l’istinto di sopravvivenza» (il bisogno di mangiare, di bere, di «guadagnarsi da vivere», di costruire abitazioni e abbellirle e renderle confortevoli, di riscaldarsi vicino a un fuoco dopo aver tagliato interi alberi, ecc.) debba essere sempre di più salvaguardato, avvalorato e soddisfatto. In verità, è destino voler sempre di meno nutrirsi, accoppiarsi e, in generale, sopravvivere, nel significato malato della parola, poiché è destino che ci si renda sempre di più conto che l’autentica sofferenza è proprio la volontà di darsi da fare per restare in vita: tutto vive infatti in eterno, nel modo processuale che al Tutto compete di necessità e non per effetto di una volontà alienante di produrre e distruggere le cose. (In proposito, e soprattutto a riguardo del problema dell’orrore che scaturisce dal «cibarsi», dal «mangiare» – non soltanto dal «mangiar carne» –, esponevo tempo fa, all’amico filosofo Gabriele Zuppa, le seguenti considerazioni: «È  un problema [eterno] complicatissimo da affrontare Gabriele, tuttavia la soluzione [eterna] esiste, come per ogni autentico problema. Credo che sarebbe molto utile, a questo punto, se tu ed io [e altri] lo affrontassimo seriamente dal punto di vista autenticamente filosofico. Io sono vicino a quello che dici. Addirittura, è proprio la totalità della nostra volontà [contraddicentesi] di «fare» [nel senso nichilistico della parola] e quindi, anche, di «mangiare», è questa totalità ad essere l’orrore originario. Ti dirò di più: anche la frutta, la verdura ed ogni altro alimento sono in verità altro da ciò che noi crediamo che siano, in essi si annida un’enorme quantità di mondi coscienziali, e quindi tutto ciò che vogliamo «mangiare» è volontà di squartare, trafiggere, uccidere... Tuttavia, il nostro bisogno di nutrimento è destinato ad abbassare l’intensità secondo la quale esso si manifesta [già con l’avvento della dominazione di quella che io chiamo «Scienza Tecnologica», cioè della dominazione della volontà di designare la verità autentica, che include la verità degli orrori], e già questo è un andare verso il prevalere di quella «soluzione eterna»).
Il senso autentico del pensiero è la guida per merito della quale si è realmente in grado di «andare avanti», sovrastando la persuasione, priva di verità assoluta, di «andare avanti» per merito, tra l’altro, dell’ottenimento di ciò che i famosi «cinque (o più) sensi» richiedono: è il pensiero infinito a vedere, sentire e così via, e il fatto che esso veda anche attraverso «l’occhio (dell’uomo o dell’animale o di qualsiasi altro ente individuale)», o che senta anche attraverso «l’orecchio» (e così via per ogni «senso»), ciò non significa che sia «l’occhio», in quanto è una certa differenza del Tutto, ad esser ciò che, in assoluto, vede (infatti vediamo anche nel cosiddetto «sonno», o semplicemente immaginando qualcosa nella propria mente), bensì significa che «l’occhio», «l’orecchio» ed ogni altra differenza del Tutto pensante sono i diversi modi in cui quest’ultimo vede in eterno sé stesso.
La repressione autentica è quell’infinito autocontrollo del Tutto non prevalendo il quale si è destinati a naufragare nell’autentica de-pressione, cioè nel forsennato desiderio di agire, ossia nell’intensificazione (de) della volontà (illudentesi) di obbligare o sentirsi obbligati a compiere un’azione sulla base di una «legge» che, nello sguardo della verità autentica, è violabile e dunque fittizia, inautentica: la depressione è appunto l’intensificazione della volontà errante di fare (l’autentica pressione essendo propriamente tale volontà). È destino procedere verso la torre (il prevalere) giacendo sulla quale si è sempre più predisposti a reprimere cioè a controllare i propri impulsi, istinti, sogni, emozioni. La repressione è l’autentica liberazione eterna da ogni diavolo che intenda lasciarci cadere, in un’ascesa senza freni (cioè mai ultimata), nella tentazione di fare.

Neanche il tempo per guardarsi attorno e, con meschinità e saccenza, si decide di imprimere, indottrinare nella testa dei nuovi nati inesatte e non proficue informazioni. Si pensa grossomodo così: «Sei nato per merito nostro [cioè ad esempio dei genitori], e dovrai darti molto da fare se vuoi andare avanti nella vita e non marcire [morire, annientandosi per sempre]; cosa vuoi fare da grande? Dovrai adoperarti e industriarti sempre di più se vorrai essere “migliore degli altri” e non lasciarti schiacciare; dovrai farti largo servendoti di manufatti, vegetali, animali e, se necessario, anche di altri esseri umani, affinché tu possa mettere in salvo la tua salute e i tuoi interessi e privilegi; dovrai andare a scuola, studiare ciò che gli insegnanti ti dicono, senza esitare o chiedere spiegazioni; dovrai poi trovare un lavoro e ringraziare coloro che riuscissero a procurartelo; devi agire! Non stare lì a riflettere o a dormire, svegliati! [e altro ancora]». Così, il povero bambino si trova già traumatizzato e dominato da paure, angosce verso quel futuro ignoto e d’altra parte in qualche modo schematizzato e programmato da genitori, parenti, amici, professori, dottori e così via. Nemmeno il tempo di nascere ed è già un inferno.