Si esponga, qui di seguito, un estratto del paragrafo 1 (cap. 1, [A.], III, parte seconda, Le Materie Prime della coscienza) "Mitologia Greca: l'Orfismo, Omero, Esiodo. Le intenzioni implicite ed esplicite del linguaggio".
Ogni Filosofia è,
anzitutto, la Filosofia autentica del
Tutto, che include sé stessa come l’autentico linguaggio indicante appunto sé
stesso nel suo esser il medesimo significato filosofico dell’essente. Tuttavia,
il linguaggio (e quindi primariamente il linguaggio filosofico, che contiene sé
stesso in una serie finita di linguaggi: linguaggio artistico, giuridico,
economico, animale, orientale, occidentale, politico, tecnico-scientifico,
poetico, ecc.), pur designando il significato concreto del Tutto, si struttura
originariamente come l’illudersi di
indicare altro da ciò che questo
significato significa. Anche questo saggio (insieme a La struttura concreta dell'infinito e Del tragico Amore) è un
linguaggio che si rivolge al Tutto infinito, e tuttavia è un illudersi di
riferirsi ad altro (ad esempio alla convinzione che quel certo essente che viene
definito come «la parola “essere”» sia propriamente
e solamente tale definizione, nel modo in cui quest’ultima viene concepita
come una delle forme di comunicazione più dirette intorno alla persuasione di essere, emergendo e rientrando nel nulla assoluto): tale linguaggio è un
illudersi siffatto sebbene esso intenda
esplicitamente rivolgersi alla verità
del Tutto, al contrario di altri linguaggi in cui questa intenzione rimane
implicita o addirittura soppiantata dall’intenzione opposta.
Ciò significa che
anche il linguaggio appropriato alla cultura del Regno Della Similarità Prevalente (Regno SP) (che sia la cultura
orientale o che sia quella occidentale o di altro tipo; e che sia il linguaggio
platonico o quello cartesiano, ecc.) è, in verità, il linguaggio autentico che
designa il Tutto semantico dell’essente eterno: il linguaggio autentico che
indica sé stesso nel suo essere il Tutto: il linguaggio autentico che, in
quanto distinto da sé nel suo essere
il Tutto, è tuttavia l’illudersi di non essere e di non indicare il Tutto. Si tratta
quindi di scorgere secondo quali peculiari aspetti si costituisce il linguaggio
del Regno SP : se si costituisce così come si struttura il linguaggio di questa
opera (e dei miei altri saggi), oppure se si costituisce secondo implicitezze o
intenzioni che differiscono dall’intenzione esplicita, propria di quest’opera,
di riferirsi al Tutto semantico dell’essere.
Il linguaggio
filosofico che si sta portando avanti sin da La struttura concreta dell’infinito è un’intenzione esplicita di indicare il Tutto semantico. Pertanto,
rimane un problema stabilire quali
siano altre intenzioni esplicite siffatte e in quali essenti consistano sia le intenzioni implicite di indicare il Tutto, sia le intenzioni (implicite ed
esplicite) di riferirsi ad altro. E quindi rimane un problema, anche, stabilire
l’autentico ordine di successione che conduce da una certa intenzione (ad
esempio quella di Severino) ad una cert’altra intenzione (ad esempio la mia);
così come rimane un problema stabilire se in una certa coscienza (ad es. in
quella di Severino) è presente o meno un’intenzione diversa (nel «linguaggio interiore») da quella da cui scaturisce il
«linguaggio esteriore» appartenente a tale coscienza.
Si badi: il mio
linguaggio, qui ed ora, appare nel percorso eterno della Prima Volta, cioè del
prevalere del linguaggio, ossia del prevalere dell’illudersi di non essere il
Tutto, del prevalere, cioè, di quell’autentica
testimonianza del Tutto la quale è identica all’illudersi di non esser tale
testimonianza. Quindi questo mio
linguaggio non è (come ogni altro
linguaggio spettante a quel percorso) il prevalere della verità (indicata dal linguaggio). Poiché la testimonianza della verità è sia l’intenzione (implicita ed
esplicita) di indicare il Tutto
(appunto perché tale testimonianza è testimonianza della verità del Tutto), sia
l’intenzione (implicita ed esplicita) di indicare il nulla (appunto perché tale
testimonianza è un non esser ciò che
essa stessa indica), è necessario che in
ogni coscienza del tracciato della Prima Volta prevalga o l’intenzione
(implicita o esplicita) di indicare
il Tutto, o l’intenzione (implicita o esplicita) di indicare il nulla, ma
fermo restando che questo prevalere è tale non
già rispetto alla verità, bensì all’interno del modo in cui a prevalere è la non verità del linguaggio. Ciò significa
che se e poiché nella mia coscienza prevale l’intenzione esplicita di indicare
la verità del Tutto, ne risulta che è sì inevitabile
che tale prevalere sopraggiunga, all’interno del sentiero finito della Prima
Volta, successivamente al
sopraggiungere sia del prevalere (in
altre coscienze eterne) dell’intenzione (implicita ed esplicita) di indicare il nulla, sia del prevalere dell’intenzione implicita di indicare il Tutto; ma rimane problematico stabilire sia
1) se le (necessarie) altre
intenzioni esplicite di indicare il Tutto sopraggiungano soltanto dopo il sopraggiungere della mia (essendo infatti inevitabile che esistano intenzioni
esplicite siffatte che affiorano dopo
la mia – dato che la mia appare all’interno del tracciato del Regno SP, il
quale è necessariamente seguito da altri tracciati prima che sopraggiunga il
Passaggio che conduce all’eterna via finita del Ritorno –, ed essendo invece un
problema, si sta dicendo, scorgere se prima
della mia sopraggiunga un certo numero di altre intenzioni esplicite siffatte),
sia 2) l’esatta quantità-qualità delle intenzioni diverse dalla mia. (Il linguaggio
che procede da La struttura concreta dell’infinito
verso Le Materie Prime della coscienza è
comunque interno alla fase transitoria che si pone tra la dominazione della
volontà privata di potenza e la dominazione della volontà pubblica di potenza
ovvero della volontà di indicare la verità autentica; ciò significa che tale
linguaggio è una delle anticipazioni
del modo in cui quest’ultima volontà è destinata a dominare nel Regno SP).
In proposito, si
richiamino questi passi del mio saggio Del
Tragico Amore:
«Poiché ogni parola
[...], nel suo legame con l’esser segno
[cioè un indicare] che compete ad ogni essente in quanto parte del Tutto concreto, si manifesta immediatamente
[...] come testimoniante un significato (l’unico: il Tutto semantico della
struttura infinita dell’essere), e si manifesta in tal modo al di là delle intenzioni (“al di là”, nel senso che è l’infinito semantico ad
includere sé stesso come tali intenzioni, e non viceversa), relative ai segni,
di testimoniarlo o meno, allora è chiaro che io, che intendo indicare,
per mezzo di ciò che qualifico come “i miei libri” (e anche “il mio linguaggio
interiore”), il vero significato universale dell’essere, lo indico [...], in quanto
segno autentico di tale significato, oltrepassando
già da sempre ed eternamente la mia intenzione
di indicarlo; e quindi lo indicherei anche nel caso in cui avessi l’intenzione
opposta, cioè quella di non indicarlo.
«Ciò significa che
io, Severino, Heidegger, Nietzsche, Hegel, Spinoza, Leibniz, Cartesio,
Agostino, Aristotele, Epicuro, Platone, Socrate, Parmenide, Gorgia, Anassimene,
Anassimandro, Talete; e poi, ancora, un bambino, mia madre, i miei amici e qualsiasi forma di coscienza
(dell’intero universo), indichiamo, al di fuori delle nostre stesse intenzioni (positive o negative, che
siano esplicitamente o implicitamente così indicanti), ciò che in verità noi
(ogni essente) siamo, ossia il significato concreto del Tutto infinito
dell’essente eterno.
«Certamente, ciò
non vuol dire che quelle intenzioni non sussistano e non siano
considerevoli, ma significa che
qualsiasi intenzione noi si abbia, si pone in sé e per sé il nostro
testimoniare la (nostra) verità eterna. Diciamo tutti la stessa cosa (cioè
siamo tutti il medesimo: l’unica
totalità concreta degli essenti), in modi differenti; se, poi, alcuni di questi
modi non si costituiscono [non
appaiono] come l’intenzione di
designare questa verità [...], ne risulta che i modi in cui tale intenzione è
prevalente differiscono da quegli altri (in cui è prevalente l’intenzione
opposta) secondo direttive (modalità, procedure) oltrepassanti quelle secondo cui quei modi, in cui è dominante
l’intenzione di non testimoniare
l’Intero semantico, differiscono tra di
loro.
«Sebbene gli
“scritti” di Severino (e di altri) non
dicano quello stesso [quelle medesime espressioni] che i miei “scritti” dicono
(nel senso che, adeguandosi alle regole che appartengono al “nostro”
linguaggio, appare evidente la differenza tra le proposizioni dei miei libri e
quelle dei libri di Severino e di altri), rimane comunque un problema, per
questo mio linguaggio attuale, stabilire quale sia effettivamente l’intenzione che, nella coscienza di
quell’essente [cioè di quella coscienza] che viene chiamato “Severino” (o
“Plotino”, “Fichte” e altri ancora), appare in relazione a quegli “scritti”.
«[...] Qualsivoglia
“scritto” [...] è travisato, non
decifrato; tuttavia, in quanto esso è
traccia del significato reale che si manifesta, lo “scritto” designa, in
verità, il significato in quanto significato: ogni “scritto” indica, in modi
differenti a seconda della diversità delle tracce [segni] in cui lo “scritto”
consiste, il medesimo significato.
«Rimane
problematico, d’altra parte [...], quale sia esattamente il proponimento, da
parte di chi scrive (ad esempio di Schopenhauer), che configura il campo
semantico del segno che, in modo non subordinato a tale proponimento, denota
pur sempre lo stesso significato eterno del Tutto. In altre parole: può anche
darsi che ciò che effettivamente intende
Schopenhauer (o chiunque altro) nella propria coscienza [nel proprio essere il
Tutto eterno di cui fa anche parte] sia differente dal modo in cui i suoi “scritti”
lasciano intendere; e tuttavia, tali
“scritti” e ciò cui si rivolge la mente di Schopenhauer sono in ogni caso lo stesso di ciò che appare in ogni coscienza e di ciò che ogni
altro “scritto” significa» (pp.
65-67).