Riportiamo, qui di seguito, un breve estratto de Le Materie Prime della coscienza (pp. 111-118). (Il termine "Regno SP" è il Regno Umano, cioè di "Similarità Prevalente").
CAPITOLO
SECONDO
Dall’Ebraismo
allo Shintoismo
1. L’Ebraismo (Giudaismo, Fariseismo,
Rabbinismo,
Caraismo, Cabbalà)
Poiché il sopraggiungere
della dominazione della Filosofia Orientale si trova su un «gradino» (uno
specifico posizionamento) inferiore –
della «scala» (cioè del percorso) propria del Regno SP – rispetto al
sopraggiungere della dominazione della Filosofia Occidentale – e posta, quindi,
l’implicitezza orientale che nella
cultura occidentale viene coerentemente esplicitata –, è necessario affermare
che il sopraggiungere della dominazione dell’Ebraismo (che include la rispettiva Filosofia Religiosa) appartiene
alla fase in cui a sopraggiungere è la dominazione della Filosofia Orientale. (Vedremo, poi – III, [A.],
cap. 3°, par. 8 –, come e perché la Filosofia cristiana è, nell’ambito del
sopraggiungere della dominazione della Filosofia Occidentale, la corrispettiva esplicitazione dell’implicitezza
dell’Ebraismo).
Ciò che
precedentemente rimaneva per lo più inespresso e ambiguo, con l’Ebraismo (e non
solo) appare limpidamente: appare che l’essente supremo in cui si ha fede è l’unico dio dimorante al di là e all’interno del mondo. Tale
essente non è quindi semplicemente (come in precedenza) un insieme indeterminato
che raccoglie una molteplicità di dèi: è l’insieme determinato in cui prende
vita ogni determinazione specifica, destinata poi alla morte e successivamente
ad un’ascesa verso più alte visioni di quell’insieme immenso ed eterno.
Tuttavia, si sta
chiarendo, è la medesima Filosofia dell’Ebraismo a costituirsi ad un più basso
livello rispetto alle culture che sopraggiungono al suo seguito, poiché, in
tale Filosofia, il dio viene inteso prevalentemente in modo ancora troppo
astratto per essere definito come il dio che decide di dare la vita agli esseri del mondo. Tale astrattezza è
l’isolamento tra il senso conferito al dio e la necessità che un dio siffatto
debba essere concepito come il tutto immutabile
che produce dal nulla assoluto le
proprie parti. Il Monoteismo
dell’Ebraismo si presenta dunque come un pensiero ancora debole rispetto alla potenza concettuale non solo del Cristianesimo, ma di tutta la storia
della dominazione occidentale (a sua volta oltrepassata, tale storia, dalla
dominazione della volontà che vuole il dio in terra, che vuole cioè che al di fuori del proprio cerchio luminoso
non appaia alcunché, giacché essa è volontà pubblica
di potenza, interna pur sempre al Regno SP). Con la dominazione dell’Ebraismo
ci si trova ancora, cioè, nella fase immatura
della collettiva volontà privata di potenza quale appare nel Regno SP.
(La differenza tra
il Cristianesimo, l’Ebraismo e, si aggiunga, l’Islam – la cui dominazione è relativa, come quella del
Cristianesimo, alla dominazione occidentale
– è particolarmente rilevante, sebbene tutte e tre le Filosofie siano
«abramitiche», Avraham – Abramo – essendo un comune patriarca. Si dica,
inoltre, che la dominazione
dell’Ebraismo è da concepire, come si è già avvertito, all’interno della
dominazione mitica – in particolare
da quando si ha fede nel dio ebraico che si rivolge ad Abramo, forse tra il XX
e il XIX sec. a.C. –, e non all’interno della dominazione occidentale, ad
esempio non nelle pur importanti vicende riguardanti la diaspora ebraica – quest’ultima dando inizio al Giudaismo, e quindi, anche, al Fariseismo e al Rabbinismo, differenziandosi nettamente, soprattutto quest’ultimo,
dalla variante ebraica del Caraismo.
Interna alla dominazione occidentale è anche la dottrina mistica della Cabbalà –
«tradizione» ebraica –, una Filosofia che, rifacendosi anche al Neopitagorismo e al Neoplatonismo, afferma un senso «eterno» delle cose che, fondandosi
sul principio che il dio non consiste
essenzialmente in ciascuna di esse, è un senso inautentico dell’«eterno»).
Il dio ebraico è una
delle figure di spicco della volontà (privata) di intendere il dio come
un’unica identità che, producendo tutte le altre, è identica e, sub eodem, diversa da queste altre
identità, nel senso che tale volontà intende isolare l’eterno dio dalle proprie
modalità e produzioni temporali: intende rivolgersi ad un’essenza eterna
che è presente ovunque – prima, durante e dopo tali modalità e produzioni – in modo isolato e, sub eodem, in relazione a
ciò che essa produce. Sebbene intenda riferirsi, la volontà ebraica, alla
necessità che il dio si manifesti qui,
ora e in ogni tempo della
coscienza dell’uomo e delle altre
identità, in tale volontà non prevale
l’accorgimento autentico della
necessità che il Tutto infinito degli eterni (il vero «Dio») sia proprio la coscienza di ogni identità che appare temporalmente. (Alcune delle parole che
l’Ebraismo usa per rivolgersi al dio in cui crede sono: Elohim – «divinità»; il tetragramma YHWH – Yahweh in una moderna versione accademica; Adonai, «il Signore», e Hashem, «il Nome» – i due modi in cui
gli ebrei si rifanno a YHWH. Il Tanàkh è
la Bibbia ebraica – corrispondente,
in gran parte, all’Antico Testamento
della Bibbia cristiana –, nella cui
prima parte si può trovare l’«insegnamento» in cui consiste la Torah – Pentateuco –, la «trasmissione orale» della Torah essendo il Talmud. Infine, si dica che la Torah fu consegnata a Mosè, considerato
pertanto, dagli ebrei, il più alto spirito profetico).
Il legame tra il dio
ebraico e tutto ciò che non è questo dio (compreso il nulla assoluto, benché la
dominazione ebraica lo comprenda implicitamente)
è un legame di potenza: il dio
ebraico è potente, è capace di rendere esistente ciò che prima non lo era, e di
rendere inesistente la natura esistente. Frattura assoluta e, sotto il medesimo rispetto, parziale
relazione tra il dio ebraico e ciò che da esso si distingue. Questo legame di
potenza, tra l’onnipotente dio ebraico e tutto ciò che da lui si distingue, è indicato
in ebraico col verbo barà.
L’anima (nefesh) di tutto ciò che il dio ebraico produce è il basar, cioè l’identità indivisibile in cui consiste il
corpo-anima: è compiutezza psicosomatica. Quindi, l’anima non preesiste al
corpo: il corpo-anima è un dono di
dio, giacché un dono di dio sarà anche una eventuale
prosecuzione del corpo-anima dopo la propria morte.
Nella verità
autentica dell’essente, l’anima è sì identica al corpo, ma includendo tale identità come parziale, cioè parziale differenza
(oppure, semplicemente, differenza): l’uguaglianza tra l’anima (il Tutto) e il
corpo (la parte) accerchia sé stessa in quanto distinzione tra anima e corpo, cioè distinzione tra le anime, ossia tra i corpi. L’anima eterna del Tutto esperisce sé stessa in
un certo numero di processi di nascita e morte.
2. La Filosofia Dei Fenici e degli altri popoli
dell’area
semitica
siro-palestinese e mesopotamica;
lo
Zoroastrismo (o Mazdeismo)
Il dio supremo a
cui si rivolge la volontà privata di potenza è come un immane ricettacolo in
cui si crede di trovare riparo, protezione. L’appellativo di «rifugio dei
viventi», dato ad Anat («Vergine Dea») – divinità (anche) della Filosofia Dei Fenici (2000-332 a.C.) –,
sta a testimoniare appunto la volontà che, essendo fede di non essere il Tutto divino, chiede ausilio alla forza infinita in
cui per lo più crede. Il dio supremo evocato dai Fenici (insieme agli altri
popoli dell’area semitica siro-palestinese e mesopotamica) è comunque El («il più
alto», un nome che si può ritrovare anche nella Bibbia ebraica e nella derivazione del termine arabo Allah), padre di Dagan, il quale è a sua
volta padre di Baal, il principale tra gli dèi fenici.
La dominazione
dello Zoroastrismo (o Mazdeismo) si colloca anch’essa all’interno
della dominazione mitica (prima del VI sec. a.C., nell’antica Persia –
l’attuale Iran; una dominazione, quella dello Zoroastrismo, che verrà lasciata
indietro dalla propria rigorizzazione esplicita in cui consiste la dominazione
dell’Islam). Il nome «Zoroastrismo» deriva dal nome del profeta Zarathuštra (o
Zoroastro), autore (almeno) dei «canti religiosi» delle Gāthā, contenuti nel testo sacro dell’Avestā («il Fondamentale», «il Comandamento»).
«Riconosco, o Mazda [il dio, “lo spirito che crea con
il pensiero”], nel mio pensiero, che tu sei il Primo ed anche l’Ultimo, l’Alfa
e l’Omega [...] tu sei il vero creatore di Aša
(“verità”), e tu sei il Signore dell’esistenza e delle azioni della vita
attraverso il tuo operare» (Avestā, Yasna, XXXI, 8).
Anzitutto, che esista
«lo spirito che crea con il pensiero» è impossibile, data la necessità di
affermare che la parola «spirito» è, quanto al suo significato fondamentale, identica alla parola «pensiero»; non
solo: queste due parole sono a loro volta semanticamente uguali alle parole
«dio», «verità», «esistenza» e «vita», giacché è altrettanto impossibile che
Mazda sia «il vero creatore di Aša».
E ancora: le stesse espressioni «Primo», «Ultimo» e «attraverso» (cioè il «modo»,
in cui il Tutto è Tutto), in quanto
concepite nel loro esser legate tra di loro e con tutti gli altri essenti, sono anch’esse semanticamente
identiche a quelle parole.
«I due Spiriti
primordiali, che (sono) gemelli, (mi) sono stati rivelati (come) dotati di
propria (autonoma) volontà. I loro due modi di pensare, di parlare e di agire
sono (rispettivamente) il migliore e il cattivo. E tra questi due (modi) i
benevoli discernono correttamente, non i malevoli. Allora, il fatto che questi
due Spiriti si confrontino, determina, all’inizio, la vita e la non vitalità,
in modo che, alla fine, L’Esistenza Pessima sia dei seguaci della Menzogna, ma
al seguace della Verità (sia) l’Ottimo Pensiero» (ibid., XXX, 3-4).
In verità, essendo
il «modo» ad essere il «cattivo» (oppure «i malevoli», «L’Esistenza pessima»,
la «Menzogna»), è contraddittorio che «il migliore e il cattivo» si costituiscano
come «due modi di pensare». Tutti noi
(ogni essente) siamo, in verità, «l’Ottimo
Pensiero» cioè l’autentica «Verità»,
e cioè tutti noi siamo, anche, la
«Menzogna», ossia l’illudersi di non esser la verità innegabile del Tutto
eterno.
3. La morte, il bene e il male nell’antico
Egitto
La volontà privata
di potenza è volontà di innalzare un senso (in verità illusorio) divino del Tutto,
al di sopra della persuasione di esser semplicemente un tratto, prodotto dal
nulla assoluto, interno ad un Tutto divino siffatto. Rivolgersi a tale senso
vuol dire anche aspirare alla prosecuzione, dopo la propria morte, dello
spirito che anima il corpo caduto ormai nel nulla assoluto.
La morte, nel suo
senso autentico, non è un cadere nel nulla assoluto, bensì è l’eterna conclusione dell’eterna vita che, essendo nata (in eterno), è assegnata appunto alla
morte. Tranne la morte della vita dell’Ultimo, ogni morte (di una vita intesa
come un insieme eterno di diversi istanti eterni, e non la morte semplicemente
di uno di tali istanti) conduce ad un passaggio eterno dopo il quale
sopraggiunge un’altra vita (destinata anch’essa a morire, e così via fino a che
non affiora appunto la vita dell’Ultimo che, morendo, chiude eternamente
l’eterno percorso finito del Tutto infinito).
All’interno della
parziale negatività del divenire (che include il processo di nascita e morte
degli eterni stati del Tutto immutabile), la morte è comunque qualcosa di più positivo rispetto alla vita non
ancora morta, nel senso che la morte è, in ogni caso, un salire, un passare oltre l’affiorare di certe contraddizioni (che
costituiscono la vita non ancora morta). Non si fanno passi indietro. Il
sentiero del Tutto è (anche) la necessità che le morti siano un passo in avanti
verso sempre più concrete distese dell’essere. La morte di ognuno di noi (cioè
di tutto ciò che è destinato a morire) è già da sempre decisa: il destino
decide ed esperisce in eterno la morte di ogni vita, nel modo processuale che
compete all’apparire di ogni essente.
Credere di morire
finendo nel nulla (con il corpo e con la mente, o soltanto con il corpo) è
l’illusione della volontà di potenza. Tale volontà, inoltre (come si è già
accennato), nel suo apparire come volontà privata,
è la fede che si illude che la morte possa condurre la coscienza (lo spirito,
l’anima, la mente, l’io) in dimensioni diverse da quella in cui il corpo
vissuto è ormai (creduto come) un nulla. È la situazione, ad esempio, in cui si
trovano i credenti dell’antico Egitto (dal 3000 a.C. al 600 d.C.).
Tuttavia,
nell’antico Egitto, il corpo assume un ruolo di primaria importanza in
relazione al prolungamento della vita dopo la morte. Pur credendo che il corpo
(come ogni cosa) non sia eterno
(concependo questa parola nel suo significato incontrovertibile, ossia come la
stessa esistenza dell’essente che appare
in modo processuale), i credenti dell’antico Egitto hanno fede che lo
spirito, dopo la morte, possa continuare a vivere solo se 1) il suo corpo non si decompone (di qui la pratica della mummificazione),
2) il nome del defunto viene conservato e ricordato (quindi le iscrizioni nelle
tombe, su stele, su statue), 3) il defunto continua ad avere a disposizione
cibo e bevande (a cui provvede il culto funerario e il potere magico delle
formule d’offerta che si ha cura di scrivere per il defunto).
Inoltre,
nell’aldilà, di cui si persuadono i credenti dell’antico Egitto, appare la
cosiddetta «bilancia della giustizia», con la quale si valutano i meriti e i
demeriti di chi è appena morto. Tale persuasione esiste perché ci si illude di non essere il Tutto autentico degli
essenti e di esser capaci di compiere certe azioni (dal nulla): sapere di essere il Tutto infinito
(ossia essere il Tutto) vuol dire
scorgere l’impossibilità che da una parte sia manifesto il bene e dall’altra parte il male. Il bene
autentico è infatti il Tutto stesso che include sé medesimo come l’autentico male in cui consiste ogni parte: il
Tutto è il bene, la parte è il male, ma nell’apparire della necessità che il
bene e il male siano costituiti dagli
stessi essenti: ogni singola coscienza, nel suo essere il Tutto, vuole il
bene di sé stessa e di ogni altra coscienza, e la medesima singola coscienza, nel suo esser parte (di sé stessa in
quanto Tutto), vuole il male di sé stessa e di ogni altra coscienza.
Autenticamente, «volere il bene» significa essere
tutto ciò che appare in un divenire, e «volere il male» significa divenire, il «divenire» essendo il modo in cui appare tutto ciò che appare.
Il male autentico è cioè la volontà non
già di violare il violabile, ma di
violare l’inviolabile: tutto è inviolabilmente eterno, giacché non esiste la capacità di violare l’inviolabile, ma esiste la volontà di violarlo (tale volontà
essendo la volontà di potenza, che si distingue da sé stessa in quanto è
volontà autentica del Tutto che vuole eternamente sé stesso): la volontà di
violare l’inviolabile è il senso stesso del divenire, cioè della nascita e
della morte di ciò che, essendo eterno, vuole anzitutto il bene di sé stesso (e
cioè è l’apparire della propria inviolabilità). Divenendo, il Tutto appare come il non accorgersi di essere il Tutto, e pertanto è autentica violenza,
all’interno di sé stesso nel suo essere il superamento originario e immutabile
della violenza che in esso appare. Dal prevalere del male (dal percorso finito
della Prima Volta) si va verso il prevalere del bene (verso il percorso finito
del Ritorno).
Poiché il cammino
limitato dell’Intero è un’ascesa perfetta (senza saliscendi), Io (l’Intero), in
un certo tempo, sono più «colpevole»
(«peccatore») rispetto a Me stesso, in un tempo sopraggiungente in seguito a quel certo tempo (e quindi,
in tale tempo successivo, sono meno «colpevole»
di prima), e cioè in quel tempo precedente sono meno «innocente» dell’«innocenza» che appare in quel tempo
seguente. Il prevalere del senso autentico
dell’innocenza e della colpevolezza stabilisce l’intensità e il ritmo
dell’esser «più» o «meno» colpevoli/innocenti. Esser solamente innocenti o solamente
colpevoli è pertanto impossibile. In secondo luogo, il senso autentico della
volontà di potenza e delle sue forme interne (dominanti e non dominanti)
stabilisce il significato autentico della colpevolezza e dell’innocenza relative
appunto a tale volontà (relative, cioè, alla volontà illusoria di fare qualcosa che è più o meno adeguato alla volontà di potenza dominante).
Illudersi di un
senso contraddittorio della morte (e quindi della vita) e della giustizia è
illudersi, innanzitutto, di vedere la nullità del Tutto. «Quando il cielo
ancora non esisteva, / quando la terra non esisteva, / quando nulla esisteva
che fosse stabilito» (Testi delle
Piramidi). Questi passi vogliono dire che nel tempo («quando») in cui qualcosa
(«il cielo», «la terra», i quali sono, in verità, sia il Tutto che una sua
parte) «non esisteva», tale qualcosa non è ciò che esso è, è nulla, è
non-qualcosa, giacché ci si illude che il Tutto non sia il Tutto (benché si
creda, nell’antico Egitto, in un demiurgo, il sole, che preesiste al caos
primitivo da lui stesso successivamente ordinato, un demiurgo però implicitamente
annichilito dalla convinzione che sia, dapprima, un essente che ancora non
crea, e poi, un essente che incomincia e finisce di creare, sicché anche il
demiurgo è inteso come sporgente dal nulla).
4. La Filosofia Indiana e l’Induismo (Shivaismo,
Visnuismo,
Shaktismo); Jainismo (Mahavira);
Buddhismo
(G. Buddha): Amidismo, Buddhismo Del «Grande Veicolo» (Bodhidharma), Buddhismo
Zen,
Buddhismo Induista (Nagarjuna)
La dominazione
della Filosofia Orientale precede la dominazione della Filosofia Occidentale.
Lo si è già detto. Anche l’antica Filosofia
Indiana (dal 2400 a.C. al 1600 d.C.) appartiene alla prima dominazione,
sebbene vi appartenga in una fase matura di quest’ultima, una fase in cui
comincia a farsi sentire con una certa consistenza la centralità del pensiero
dell’Occidente.
Un grande e potente
tentativo (fallito), quello indiano, di indicare l’autentico senso del Tutto,
cercando di conciliare l’eternità del divino con l’eternità dell’anima di tutti
gli esseri. L’affermazione che soltanto
le anime sono eterne (insieme all’eternità dell’anima assoluta del dio in cui
si crede) esclude l’eternità di tutto
quel che vien detto «corpo materiale». E se anche si dicesse che i corpi sono
essi stessi eterni, un dire siffatto apparirebbe comunque all’interno della
convinzione (priva di verità) che l’«eternità» significhi qualcosa di diverso
da quel che significa la parola «esistere» (queste due parole indicano infatti
il medesimo significato, identico a quello indicato da ogni altra parola in quanto indicante il significato concreto del Tutto – la differenza tra le parole costituendosi
all’interno dell’indicazione del significato astratto del Tutto). Il senso autentico del Tutto eterno è il Tutto
stesso che appare nel modo diveniente in cui appare ogni istante della nostra
vita – giacché ogni istante che appare temporalmente è in verità l’eternità del
Tutto (che, appunto, osserva sé stesso in un numero finito di istanti).
Nella Bhagavadgita (il Canto del Beato) si afferma infatti: «Sappi che non può essere
annientato ciò che pervade il corpo. Nulla può distruggere l’anima eterna»
(p.58); «L’anima è indistruttibile, eterna e senza dimensioni; soltanto i corpi
materiali che assume sono soggetti alla distruzione» (p. 60). L’autentico significato dell’«anima» è,
invece, il significato stesso del «Tutto eterno», il quale è «eterno e senza
dimensioni» non nel senso che i «corpi
materiali ... sono soggetti alla distruzione», bensì nel senso che eterne e
senza dimensioni sono proprio quelle finite dimensioni in cui consistono i
corpi materiali, e cioè proprio nel senso che il Tutto eterno è sconfinato nel suo includere un numero finito di
confini: la totalità assoluta dell’infinito è la totalità (eterna) dei corpi materiali, ossia questi corpi
sono i corpi della totalità infinita:
l’infinito è l’inclusione eterna di sé
stesso nel suo apparire come un divenire finito di modi (eterni, che cioè
esistono, appaiono) in cui l’infinito è infinito. Ciò (albero, acqua, sasso,
etc.) che viene definito «corpo materiale» non
è soltanto un «corpo materiale» (una
parte, un tempo, una differenza, una dimensione, un’astrattezza, un limite, un
numero), bensì è anzitutto lo stesso apparire eterno del Tutto
infinito, e cioè è anche un «corpo
materiale»: essere il Tutto significa
esser anche la parte, ed essere la parte significa essere primariamente il Tutto (il cui esser
anche parte appare).
Pertanto,
l’«ignorante» è, realmente, la coscienza che si illude che qualsiasi essente può uccidere o essere ucciso (a meno che
l’«uccisione» non sia intesa in senso non-nichilistico), e il vero «saggio» sa
che tutti gli essenti non uccidono né
muoiono (se per «morte» si intende il finire nel nulla assoluto da parte di chi muore); giacché non è vero che soltanto in riferimento all’anima (e non al corpo) si può dire che
«Ignorante è colui che crede che l’anima può uccidere o essere uccisa; il
saggio sa che l’anima non uccide né muore» (ibid.,
p. 61).
L’anima, nel suo
senso autentico, è ciò che, già da sempre
e per eternità, include il proprio
svolgimento di nascita e morte. È fuorviante dire quindi: «Per l’anima non c’è
né la nascita né la morte. Esiste e non smette mai di esistere. Non nasce, non
muore, è eterna, originale, non ebbe mai inizio e non avrà mai fine. Non muore
quando il corpo muore» (ibid., p.
62). Il non nascere e il non morire sono l’eternità di ciò che nasce e muore, nel senso che gli essenti cangianti che
nascono e muoiono non vengono dal nulla assoluto (non nascono: nascono non nascendo dal nulla assoluto) e non rientrano nel nulla assoluto (non muoiono:
muoiono non morendo nel nulla assoluto): ciò che nasce (la parte)
proviene da (cioè appare all’interno di) sé
stesso in quanto non nascente apparire del Tutto, e ciò che muore rientra
in (cioè appare all’interno di) sé stesso
in quanto non morente apparire del Tutto (che è lo stesso Tutto non nascente).
La differenza tra il Tutto nascente e
il Tutto morente è tale in relazione al
proprio esser parte (di sé in quanto Tutto): A e B, in quanto sono il Tutto, non differiscono tra di loro; essi
differiscono, invece, in quanto appaiono
come parti (della loro unione
infinita).
L’anima eterna
dell’autentico significare del Tutto è unica, in una pluralità finita di modi,
cioè di materie in cui l’anima è sé stessa. La dottrina dell’antica Filosofia Indiana,
per la quale ciò in cui consiste l’anima universale del dio (brahman) è costituito da essenti differenti da quelli che
costituiscono la struttura dell’anima del mondo – a loro volta differenti, tali
essenti, da quelli che costituiscono la struttura dell’anima singola (l’atman, che viene inteso anche,
d’altronde, come indissolubilmente legato al brahman) –, è la contraddizione fondamentale che prevale non solo
nei Veda (linguaggi antichissimi del
pensiero induista, affiancati dai
grandi poemi epici del Mahabharata –
a cui appartiene il testo della Bhagavadgita
– e del Ramayana) e in tutta la
cultura indiana, ma anche in ogni altra cultura (orientale, occidentale, etc.).
Inoltre, il senso
autentico della «reincarnazione», il quale viene testimoniato nel Tragico Amore (e, secondo diverse forme
linguistiche, già in S.C.d.I.), è
abissalmente diverso da quello che prende spicco nella Filosofia Indiana, non
solo perché quello autentico include la necessità della linearità temporale (appartenente a sé stessa in quanto circolo
eterno del Tutto), in base a cui si stabilisce che la manifestazione del Tutto,
incarnandosi in sé stessa nel suo
esser quella parte di sé in cui l’Inizio
consiste, si reincarna in sé stessa
nel suo esser tutte quelle altre parti di sé costituite dagli essenti che
sopraggiungono dopo l’Inizio (nel
modo diacronico che a tali parti compete) – una linearità che non è presente,
invece, nel concetto di una «ciclicità temporale» (il samsara a cui il mortale è legato in virtù dell’agire in cui il karma consiste, la liberazione – moksa – dal ciclo di nascita e morte e
dall’agire essendo il ricongiungimento col brahman)
di cui parla la cultura indiana –, ma innanzitutto perché quel senso autentico
è la necessità che sia appunto lo stesso
Tutto infinito a reincarnarsi.
Inteso in un senso
riduttivo, il concetto di «anima» viene relegato, all’interno della Filosofia
del Buddhismo (fondata da Gautama
Buddha – filosofo indiano, 566-486 a.C. –, più o meno nello stesso periodo del
prevalere del Jainismo, basato soprattutto
sulle riflessioni di Mahavira – 599-527 a.C. –, e il Buddhismo includendo, tra
l’altro, l’Amidismo, cioè il Buddhismo Della Terra Pura, a sua volta
incluso nel Buddhismo Del «Grande
Veicolo», il cui rappresentante più noto è Bodhidharma, 483-540 d.C.),
nella sfera dell’illusione, ossia del modo in cui, secondo tale Filosofia, ci
si convince che la nostra vita sia un processo regolato appunto da un’anima (un
io, un sé) immortale ed essenziale. Si soffre, afferma il Buddhismo, perché si
crede innanzitutto che esista un’anima siffatta, giacché quel processo è anatta, non-io, non-sé. Tuttavia,
si sta tentando di chiarire, questa è una delle contraddizioni interne e relative alla contraddizione fondamentale in cui consiste il Buddhismo,
quest’ultima essendo quella stessa contraddizione che accompagna la riflessione
di ogni altra Filosofia che non sia la Filosofia autentica del Tutto infinito.
Una contraddizione relativa, nel senso che è comunque inevitabile che anche per
la Filosofia buddhista esista un io, un’anima essenziale, altrimenti, tale Filosofia,
non potrebbe nemmeno convincersi
dell’esistenza dell’anatta, appunto
perché è in base ad un io (ad una
coscienza) che ci si può convincere
di qualcosa.
Inoltre, nel Buddhismo,
il significato del «nirvana» è affine
a quello della parola «moksa», una
parola appartenente al linguaggio dell’Induismo
(a quest’ultimo appartenendo le correnti «devozionali» dello Shivaismo, del Visnuismo e dello Shaktismo):
il nirvana è appunto il luogo in cui
si è completamente felici, la dimensione in cui non si patisce più il dolore.
La verità autentica del Tutto vede, invece, che la compiuta felicità di ognuno di noi è il Tutto stesso nel suo
apparire come l’inclusione delle proprie parti, e cioè del proprio dolore, nel modo in cui dal prevalere del dolore si procede verso il
prevalere di questa gioiosa
compiutezza. Il dolore è l’assenza,
quindi è impossibile un luogo in cui sia assente il dolore, ovvero è
impossibile un luogo in cui si sia felici senza
patimento del dolore.
Ancora: la vacuità (sunyata) a cui si riferisce il Buddhismo (soprattutto con
Nagarjuna, il quale visse probabilmente verso la fine del II secolo d.C.) è uno
dei modi più rilevanti in cui si esprime la Filosofia Orientale: uno dei modi
in cui ci si contraddice per il
motivo che ci si intende rivolgere a
ciò (quella vacuità) che viene inteso
come il non-intendibile. Quando si
sostiene che una vacuità siffatta è la realtà in sé di cui non si può dire né
che esiste né che non esiste (come sostiene appunto Nagarjuna), ci si immerge
in un contesto linguistico riduttivistico nel quale ci si persuade che
l’«esistere» (l’essente) e il «non esistere» (il nulla) non costituiscano il
significato autentico dell’Assoluto, cioè dell’opposizione infinita tra
l’essere eterno e il nulla assoluto (un’opposizione che, in quanto è
opposizione al nulla assoluto, è
identica all’essere, e che, in quanto è opposizione all’essere, è identica al nulla assoluto). Il significato dell’«esistere» non
può essere trasceso (nemmeno da tale vacuità), proprio in quanto
l’«esistere» è il «significato» stesso, il quale si contrappone già da sempre e
per sempre (in modo processuale) al «non-significato», cioè al «non-esistere».
Non si può dire, si spieghi meglio, che l’unione
del «significato» e del «non-significato» eccede
sia l’uno che l’altro, appunto perché tale unione, in quanto significante, è
identica all’essere (ovverosia al significato, che include l’affermazione parziale del non-significato), e in quanto
non-significante, è identica al nulla assoluto.
Si può dire,
infine, che il Buddhismo Zen (questa parola derivando, da ultimo,
dal sanscrito dhyana, ossia meditazione)
sia un Estremismo del Buddhismo Induista a cui si rivolge
soprattutto Nagarjuna: porta all’estremo, cioè, quella vacuità che, nello Zen,
assume i caratteri del vivere la propria vita soffermandosi in senso assoluto
sul preciso istante in cui si vive. Questa riflessione, tuttavia, è negata
dalla verità autentica del Tutto, perché è vero che ogni istante è in realtà il
Tutto stesso di cui l’istante è (anche) istante (cioè parte di sé in quanto
Tutto), ma il Tutto autentico non può essere la vacuità o ciò cui si riferisce
in particolare lo Zen, perché è necessario che ogni istante, nel suo essere il
Tutto, sia ogni altro istante, e che
la totalità degli istanti sia la rimembranza del passato e la previsione del
futuro (sebbene una rimembranza e previsione siffatte siano prevalenti nel
sentiero del Ritorno, nella Prima Volta prevalendo, invece, la dimenticanza del
passato e la non-previsione del futuro). Non solo: anche in quanto è parte,
ogni istante è, benché in modo finito, ogni altro istante.
5. Il Confucianesimo (Confucio, Mencio) e il
Neoconfucianesimo
(Zhu Xi); il Legismo (Han Fei, Li Si); il Taoismo (Laozi, Zhuāngzĭ); lo
Shintoismo (forme di Panteismo, Panenteismo, Panpsichismo e Animismo)
La buona fede di
Confucio (551-479 a.C., filosofo cinese, vissuto nel periodo antecedente alla
diffusione del Legismo, fondato dai
filosofi cinesi Han Fei – vissuto nel III sec. a.C. – e Li Si, 280-208 a.C.),
con la quale egli si propone di educare l’uomo portandolo nella condizione in
cui ogni individuo sia moralmente legato ad ogni altro individuo – in una
perfetta armonia che appaia come la perfetta società –, non può essere quella
autentica società perfetta quale appare all’interno della dominazione della
volontà pubblica di potenza. L’Etica (la Moralità) è imperfetta se viene concepita all’interno della
dominazione della volontà privata di
potenza, una volontà, quest’ultima, che è appunto dominante nel Confucianesimo (al quale aderisce, tra
gli altri, il filosofo cinese Mencio, 370-289 a.C.). (Si parla poi, anche, di Neoconfucianesimo – 960-1279 d.C. –, il
cui esponente principale è il filosofo cinese Zhu Xi, 1130-1200 d.C.).
I proponimenti, le
buone intenzioni e le aspettative di Confucio sono tutti modi acerbi e immaturi
rispetto al prevalere della consapevolezza tecnica
di voler attuare il maggior numero
possibile di scopi in relazione alla
totalità degli individui (rimanendo comunque nella dimensione del Regno SP).
La classe delle norme sociali, di riti e cerimonie (una classe che Confucio
chiama il li, cioè l’ordine), al di sotto dell’ordinamento
divino (cioè del Tien, «il Cielo»)
che decide comunque il corso degli eventi, tale classe (inclusa in ciò che si
crede sia appunto il Tien) appare
all’interno del prevalere del carattere ideologico
della volontà di potenza quale si mostra inclusa nel Regno SP.
Per quanto invece
riguarda il Taoismo (o Daoismo, presumibilmente
fondato dal filosofo cinese Laozi – circa 604-531 a.C. –, e al quale appartiene
anche l’altro filosofo cinese Zhuāngzĭ, 369-286 a.C.), lo si può ricondurre a quello stesso di cui si
persuade il Buddhismo, in particolare quello di Nagarjuna e quello Zen. Esso
sostiene, infatti, che il Tao (cioè la via),
essendo (creduto come) la fonte assoluta da cui tutto proviene – una fonte che
dimora oltre l’essere e il non-essere, e che quindi dà l’esistenza al Tutto esistente –, non può essere nominato, è
ineffabile, è l’assolutamente indefinito, ossia è l’inesprimibile. Dal Tao deriva anche il Te (tradotto in genere con virtù),
ovvero ciò che determina il differire tra le cose, un differire che è lo stesso
modo in cui il Tao è in qualche modo
manifesto nel mondo terreno.
Affine al Taoismo è
lo Shintoismo (Religione Giapponese affermatasi probabilmente alla fine
dell’ultimo Periodo Jomon, che va da
circa il 10000 a.C. fino al 300 a.C.), secondo il quale è il Matsubi a costituirsi come l’identità universale (l’energia cosmica)
attraverso cui si genera tutto ciò che da essa si distingue (il Matsubi corrispondendo dunque, si può
dire, al principio del Tao). Non
prevalendo, in tale Filosofia, l’autentica
riflessione sul Tutto infinito (che include sé stesso come finito), la Religione
dello Shintoismo è testimonianza di una forma di Panteismo (legata a forme di Panenteismo,
Panpsichismo, Animismo) che non rende giustizia al vero senso dell’essere quale appare come la necessità che ogni
essente sia, appunto, ogni essente cioè anche un certo essente. Nello Shintoismo, le cose del mondo (tra cui i Kami, cioè le presenze spirituali nel
mondo) sono il frutto della produzione del Matsubi,
il quale è tuttavia scisso in due grandi sfere cosmiche, quella della radice
positiva (Yo) e quella della radice
negativa (In), l’avvicendarsi delle
quali conduce appunto alla manifestazione dei Kami e di tutte le forze naturali.