martedì 16 giugno 2015

Sull'impossibilità della "contraddizione C"


Riportiamo qui due estratti del mio secondo saggio Del tragico Amore.

Primo estratto: "Il significato autentico della contraddizione è negazione dell'esistenza della 'contraddizione C'" (pp. 84-89)


 La necessità che la differenza tra le parti sia identica alla differenza tra il Tutto e le sue parti è, anche, l’inattuabilità di quella contraddizione, tra il Tutto e la parte, che Severino chiama «contraddizione C» (di cui si parla sin da La struttura originaria) – la quale è, nel discorso severiniano, oltrepassata già da sempre ed eternamente dal Tutto stesso in quanto apparire assolutamente concreto e infinito di ogni essente (ibid., Essenza del nichilismo, Destino della necessità, La Gloria, Oltrepassare, La morte e la terra), e la quale è anche oltrepassata «all’infinito» nella molteplicità infinita dei luoghi finiti dell’apparire (La Gloria, Oltrepassare, La morte e la terra).
«[…] la “contraddizione C” è già di per sé stessa qualcosa di impossibile. Infatti […] ciò che autenticamente si manifesta sempre e ovunque qualcosa si mostri, è quella concretezza assolutamente compiuta del Tutto che invece per Severino – avendo un significato diverso da quello che qui si sta affermando, e sebbene tenti egli stesso di non cadere in contraddizione asserendo che essa appare totalmente come ciò che non può apparire totalmente nel finito (rimanendo, essa, l’“inconscio” di quest’ultimo) –, non è ciò che immediatamente si mostra, e che dunque è qualcosa che deve essere “fondato” sulla struttura originaria e finita della verità» (La struttura concreta dell'infinito, cap. IX, par. 3).
Dato che la contraddizione C è impossibile (perché scaturisce dal mancato rilevamento dell’identità semantica tra le espressioni «differenza tra le differenze» e «differenza tra il Tutto e la differenza», e cioè dal non avvedersi che il Tutto concreto è anapoditticamente cioè originariamente in luce proprio in modo finito, ossia processuale, temporale, specifico; cfr. Appendice terza; parte terza, cap. 2°, par. 1; poi il Glossario, «Contraddirsi»), la volontà (cfr., anche qui, il Glossario) che essa esista non è impossibile, anzi, una tale volontà è proprio l’autentica ed unica contraddizione inclusa nel Tutto concreto, una contraddizione che, consistendo in ogni essente in quanto temporale, è il medesimo illudersi di essere isolati dal Tutto infinito dell’essente (mentre, nel pensiero di Severino, non solo viene affermata la contraddizione C, ma essa viene anche distinta e posta al fondamento della «contraddizione normale», cioè dell’errare dell’«isolamento della terra»).
«[…] ciò che si intende [ovvero ciò che si crede, ci si illude di] porre non è né la concretezza né l’astrattezza (che è l’intenzione stessa) – proprio perché ciò che si pone è la concretezza insieme [ovvero identica] all’astrattezza (ossia è l’astratto che si manifesta nel suo essere eternamente incluso nel concreto) –, bensì è il concreto in assenza dell’astratto, e cioè è l’astratto in assenza del concreto» (La struttura concreta dell'infinito, cap. IX, par. 3).
La contraddizione autentica, interna alla totalità infinita dell’essente immutabile, è la stessa inevitabilità che, nell’opposizione tra l’essere e il niente (ossia tra il Tutto e il nulla), il niente sia in qualche modo affermato. Poiché il nulla è parzialmente affermato (e cioè è parzialmente negato, all’interno della manifestazione concreta dell’essere come eternamente contrapposto al niente, all’interno, cioè, della negazione assoluta, propria dell’essere eterno, che il niente possa ad esso immedesimarsi), il Tutto assoluto dell’essere è anche un contraddirsi, e questo contraddirsi è la «parte» (il tempo, il divenire, l’incominciare e finire, l’astrattezza, l’incompletezza). (Per il fondamento di queste affermazioni sul senso del «nulla come affermato e come negato» e sul «contraddirsi», cfr. soprattutto i capp. II e IX de La struttura concreta dell'infinito).
Il Tutto eterno dell’essente è pienamente manifesto, ed è il fondamento di ogni sua parte (è ciò per cui si mostra ogni sua differenza finita, ed è ciò senza di cui – un’assenza impossibile – non apparirebbe alcuna differenza), la quale è lo stesso modo in cui la manifestazione piena del Tutto si oppone eternamente al nulla, ossia è, tale manifestazione, già da sempre e per sempre presso di sé. La contraddizione C, che in verità non si mostra, scaturisce dal non accorgersi, appunto, che la totalità non può essere sé stessa in modo diverso dal modo parziale in cui, di fatto e necessariamente, è originariamente in luce: poiché l’«astratto» è la modalità secondo la quale il «concreto» è il «concreto», si è completamente fuori strada quando si intende insistere nell’affermare la posizione di un senso ulteriore del «concreto». Questa (supposta, progettata, ipotetica, presunta) ulteriorità, infatti, non appare, giacché è impossibile che si sia affacciata in passato o che venga ad aggiungersi nel futuro. La contraddizione C, il suo immobile oltrepassamento (in cui consiste, secondo Severino, il Tutto assolutamente concreto) e quello mai ultimato (nel finito) non sono altro che risultati della volontà di separare il Tutto immutabile dalle sue parti (ossia della volontà contraddicentesi e interpretante che si illude di non avere dinanzi la totalità infinita degli essenti).
Se la distinzione tra l’infinito e il finito (cioè tra ogni essente – il mare, il cielo, etc. – in quanto essente e ogni essente – lo stesso mare, lo stesso cielo, etc. – in quanto certo essente) viene concepita come diversa dalla distinzione tra i finiti (cioè tra il mare, il cielo, etc.), si cade in contraddizione, perché, lo si è detto più volte, tale diversità è in verità inesistente. D’altra parte, la locuzione «tra i finiti» è semanticamente identica alla locuzione «tra gli infiniti» (cioè tra gli essenti, gli immutabili), poiché l’identità (il legame: l’Uno infinito) che unisce il mare, il cielo, etc., non aggiunge nulla ai significati «mare», «cielo», etc. (altrimenti si manifesterebbe qualcosa, ad es. il mare, di semplicemente finito – fermo restando che l’infinito oltrepassa già da sempre e per sempre le sue differenze finite, e che questo oltrepassamento eterno è il medesimo apparire di tali differenze, un apparire che, dunque, non aggiunge altri essenti a quelli in cui consistono le differenze).
Illudersi dell’esistenza di quella diversità è illudersi di non essere il Tutto semantico dell’essere eterno: il Tutto eterno, nel suo esser parte, non si accorge di ciò che esso è, cioè si persuade di esser semplicemente (cioè soltanto) parte: non ci si può illudere di esser la parte – appunto perché la parte non è illusoria (e cioè esiste, appare, non è il nulla) –, ma ci si illude (e questo illudersi è appunto la parte stessa) di non poter essere il Tutto, cioè di essere soltanto parte, cioè che la parte sia separata dal Tutto concreto dell’essente eterno, cioè che le parti siano separate tra di loro.
Se (ad es.) quelle foglie che cadono dall’albero (come qualsiasi altro essente) fossero semplicemente una parte del Tutto (senza essere il Tutto compiuto), ne verrebbe che il Tutto (essendo ogni differenza) è identico a quelle-foglie-che-non-possono-essere-il-Tutto, e cioè ne verrebbe che il Tutto non può essere il Tutto, non può essere ciò che esso è – giacché quelle foglie non potrebbero essere nemmeno delle parti, appunto perché se una parte non è parte del Tutto (cioè di sé in quanto essa è il Tutto stesso che include sé stesso come parte), allora essa non è nemmeno parte (è un nulla). Quelle foglie (e gli altri essenti immutabili) sono il Tutto già da sempre ultimato, cioè sono anche una parte del Tutto: una «parte», cioè un illudersi di non essere il Tutto infinito, nel senso che è il Tutto stesso ad illudersi di non essere sé stesso (ché, se non fosse il Tutto a illudersi di non essere il Tutto, allora l’illudersi non sarebbe l’illudersi di non essere il Tutto – fermo restando che il Tutto eterno, che è il non illudersi della verità che oltrepassa compiutamente l’illudersi in cui consistono le parti cangianti, è anche l’illudersi di non essere il Tutto eterno: il Tutto infinito è il non contraddirsi che, in quanto parte, si contraddice, cioè si illude di non essere il Tutto infinito, la «parte» essendo lo stesso «contraddirsi»).
Noi non siamo o il Tutto (l’essenza concreta dell’essente eterno) o la parte (l’individuazione finita in cui consiste ogni tempo, luogo, determinazione): siamo il Tutto e la parte, ovvero anche la parte: siamo il Tutto che è eternamente sé stesso in modo parziale, cioè temporale, processuale, astratto, individuale.
Apparendo come il Tutto concreto, ognuno di noi è l’oltrepassamento immutabile di sé stesso in quanto oltrepassamento processuale della contraddizione finita in cui consiste ogni parte diveniente. Essere ogni cosa vuol dire includere già da sempre ogni certa cosa, e cioè significa essere anche una certa cosa, nel suo distinguersi dalle altre cose: essere il Tutto significa essere anche il contraddirsi di ogni parte, ossia l’illudersi di non essere il Tutto.


Secondo estratto: la seconda sezione del paragrafo "Inattuabilità dell' 'istante senza attesa' e il presupposto sbagliato della 'contraddizione C'" (pp. 336-339)


[...] sin da La struttura originaria, ci si persuade che il Tutto concretamente infinito appaia in una dimensione ulteriore rispetto a quella dell’apparire in cui l’essente è uguale a sé in modo processuale (parziale), e non ci si rende conto, appunto, che il Tutto assolutamente concreto e già da sempre compiuto è identico a sé proprio e soltanto in modo processuale – giacché quella presunta ulteriorità (che nel discorso di Severino acquista il senso del superamento eternamente compiuto della contraddizione C, un superamento in cui appare eternamente tutto, e quindi anche tutti quegli essenti eterni destinati a sopraggiungere nel cerchio finito dell’apparire) non può esistere (e infatti non è presente, né mai potrà esserlo, una dimensione immutabile senza alcun sopraggiungere e cessare, una dimensione, cioè, che non contenga sé stessa come diveniente: ogni essente è già da sempre e per sempre identico a sé nel modo in cui incomincia e finisce, e non può esserlo in altri modi, perché è proprio il «modo» ad essere il «divenire» – «l’incominciare e il cessare» –, l’«eternità» essendo già manifesta nell’atto stesso in cui si afferma che il Tutto concreto è sé stesso in modo astratto, finito). (Cfr. Glossario, «Contraddirsi»).
Credendo in tale ulteriorità – scaturita dalla convinzione (illusoria, priva di verità) che la differenza tra le parti sia diversa dalla differenza tra Tutto e parte –, Severino pone un distacco, una separazione tale, tra finito e infinito, da esser costretto a giungere alle conclusioni de La Gloria, Oltrepassare e La morte e la terra, e cioè affermando che la totalità concretamente infinita dell’essere ha un contenuto infinito: «infinito», nel senso che i tratti della struttura totale dell’eterno non sono numerabili, giacché tale struttura totale include un ampliamento all’infinito di infinite parti di sé, le quali sopraggiungono processualmente nella molteplicità non numerabile dei cerchi finiti dell’apparire del destino. Essendo una infinità di dimensioni infinite, il Tutto non potrà mai approdare ad un ultimo accadimento: ogni sopraggiungente viene oltrepassato da altri sopraggiungenti, e così via all’infinito, verso sempre più estese dimensioni dell’Assoluto. In una tale prospettiva, è chiaro che la morte, concepita come compimento di quella che chiamiamo «la nostra vita», non può che condurre all’«istante» di cui si parla ne La morte e la terra.
Infatti, non scorgendo che tutto ciò che un essente non vede in sé stesso, in quanto (tale essente) è distinto dall’altro da sé, lo vede nei tempi diversi da quello in cui tale essente consiste (e la differenza tra i «tempi» è la stessa differenza tra le «parti», cioè tra gli essenti in quanto distinti tra di loro cioè dall’essente in quanto relazione infinita che unisce eternamente ogni propria distinzione), Severino pone, nel suo discorso filosofico, sia il Tutto infinito come oltrepassamento immutabile della contraddizione C in cui consiste il Tutto finito, sia la molteplicità infinita dei cerchi finiti come distinta dall’iposintassi includente la «terra» (il «sopraggiungente»), destinata, quest’ultima, a sopraggiungere in tratti sempre finiti di sé stessa (la «dimensione infinita» in cui consiste la terra rimanendo, infatti, un non sopraggiungente).
Pertanto, distinguendo (contraddittoriamente, stiamo dicendo noi) il «cerchio finito» dal «diveniente» (cioè dalla «terra» e dall’apparire dell’«iposintassi»), e distinguendoli, a loro volta (ancora contraddittoriamente), dall’«errare dell’isolamento della terra» (e pertanto dalla «volontà empirica», cioè dalla «vita» come volontà di potenza e dal «dolore»), è chiaro che è impossibile (seguendo il discorso di Severino) che sia un «cerchio finito» a sopraggiungere, permanere per un certo tempo e giungere alla propria morte; e quindi è altrettanto impossibile che con tale morte sopraggiunga un «passaggio» (quale, invece, si sta affermando in questo libro). Nel discorso di Severino, difatti, è nel «cerchio finito» che il sopraggiungente sopraggiunge, ed è pertanto contraddittorio che sia tale cerchio a sopraggiungere.
In verità (al di là di ciò che Severino intende indicare col suo linguaggio), il sopraggiungente sopraggiunge dimorando eternamente all’interno di sé stesso in quanto non sopraggiungente, e cioè, possiamo dire, «proviene» da sé stesso in quanto non sopraggiungente, «entrando» in sé stesso in quanto sopraggiungente (entrante); ciò può ed è necessario che appaia, proprio perché la totalità contiene sé stessa come sopraggiungente e congedantesi. Per questi motivi, non c’è alcun bisogno di un invariante cerchio finito che sia distinto dall’invariante cerchio infinito e dalla finitezza variante. Infatti, il «variante» (la «terra», l’«iposintassi», l’«errare») è il «finito» stesso, in quanto tale (è il «cerchio finito»); e l’«invariante» è assolutamente identico al «Tutto infinito» (al «cerchio infinito»).

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