domenica 23 ottobre 2011

"La struttura concreta dell'infinito": Quarta di copertina - Esergo - prime righe dell'Introduzione - Indice





Sottotitolo: negare la <<storia dell’uomo>>, oltrepassando il pensiero di Severino.
Editore: youcanprint
Pagine: 408
Data di uscita: settembre 2011


QUARTA DI COPERTINA (di Andrea Berardinelli)

    Districarsi nell’alveo del pensiero filosofico di Emanuele Severino non è compito semplice, e la difficoltà aumenta quando, come nel testo che qui affrontiamo, ci si propone l’oltrepassamento del fondamento del discorso severiniano.
    Scevro da ogni possibile schematismo accademico, l’autore si propone, in primis, di illustrare le soluzioni che egli ritiene necessarie per risolvere determinate aporie filosofiche, mostrando il nuovo volto che, in tale risolvimento, acquista il concetto di struttura concreta dell’essere. In secondo luogo, vengono evidenziate quelle che, usando il linguaggio dell’autore, sono le <<contraddizioni>> presenti nell’impalcatura logica del pensiero di Severino, con analisi di notevole spessore teoretico, al pari solo di chi è addentro da anni alle questioni ontologiche.
    La filosofia è essenzialmente lo sfondo all’interno del quale ogni contenuto, che interpretiamo come <<storia dell’uomo>>, accade. Ciò che si crede sia lontano dal vivere quotidiano, come un discorso siffatto potrebbe ad un’analisi semplicistica apparire, è in realtà la chiave imprescindibile dell’esplicazione del senso di tutti i fenomeni che riteniamo evidenti, ma che necessitano di essere fondati e riconsegnati al loro senso veritativo.
    Comprendere a fondo tali tematiche ci aiuta a fare un passo avanti in vista del superamento delle contraddizioni che attanagliano il vivere umano. La contraddizione è isolamento e dolore. Pertanto, nell’ottica di tale superamento ci si propone, nell’opera, di indicare l’identità di totalità e parte – pur conservando la loro distinzione –, in modo tale che ognuno non rimanga alla superficie e non renda quindi inutile ogni sforzo che non sia legato all’essenza del fondamento.


ESERGO

Ogni cosa, dalla più esigua e trascurata alla più solenne e maestosa, è la struttura concreta dell’infinito; e soltanto all’interno di questo esserlo ci si può illudere di essere altro da una struttura siffatta.
Di ogni essente (tavolo, albero, stella, ecc.) si può ed è inevitabile predicare l’esser parte dell’infinito (cioè della totalità), solo in quanto il medesimo essente (tavolo, albero, stella, ecc.) è anapoditticamente concepito come l’infinito stesso di cui la parte è parte.
Ognuno di noi (ogni cosa) è l’eterna struttura infinita del Tutto, sebbene si debba dire che a trionfare è, nel tempo presente, la persuasione di non esserlo.


La struttura concreta dell’infinito non è in alcun modo qualcosa che non si possa esperire; anzi è il senso stesso dell’esperienza di tutto ciò da cui è formato ogni istante: è l’affermazione innegabile di tutto ciò la cui esistenza è immediatamente posta.
Il linguaggio di quest’opera intende pertanto testimoniare che ogni parola, segno – ogni parte –, designa lo stesso significato – cioè la totalità –, altrimenti il segno denoterebbe significati che sono a loro volta dei segni, e così via in indefinitum, giacché nessun significato sarebbe posto, e pertanto non sarebbe posto nemmeno alcun segno, cioè non esisterebbe nulla – appunto perché il segno è tale rispetto al significato.
Che la struttura dell’infinito sia la nostra esperienza originaria, e che il linguaggio si rivolga ad un unico significare, vuol dire che <<tutto ciò che esiste è eterno proprio nel modo irripetibile e limitato in cui dal primo avvenimento si è in attesa dell’ultimo, il quale, non essendo soltanto un atteso, ma anche un presente, è destinato ad accadere col sopraggiungere della fine di quell’attesa>>.


INTRODUZIONE (prime righe) 


                Il lettore si accinge a legger questo libro; lo apre, ed è la prima pagina a stagliarsi sul suo sguardo. La pagina appare vuota, bianca, quasiché si fosse impallidita, similare al volto di un uomo nel suo paventare la morte che lo investe all’improvviso. Ancora un poco e lo sguardo si sposta, a ritmo lento, sulla pagina seguente. In quest’ultima, il contenuto non è lo stesso di quello apparso nella prima: spicca sullo sfondo bianco qualche tratto di color nero, sì che il lettore, a questo punto, non può far altro che tentare di scorgere il senso unitario di quei tratti, interpretandoli a suo modo.
                Intanto, con l’affacciarsi della seconda pagina, quella precedente, pur restando ciò che essa è – cioè non avendo cessato di essere <<la prima pagina>> –, viene lasciata indietro: il lettore si trova ora occupato con la decifrazione di quel che nella seconda pagina può essere ravvisato, mentre il suo sguardo si accorge, con la coda dell’occhio, di quella prima pagina il cui passato è ormai un presente.
                Non solo: ciò che è divenuto un passato non è la semplice prima pagina, ma anche...


INDICE


 Introduzione

Indicazioni preliminari sul rapporto tra il linguaggio di quest’opera e il linguaggio di Severino

I.      L’identità semantica tra i termini "essente", "esistere" e "apparire"

  1.     Il "significare" è l'"essere"
  2.      Il segno è oltrepassato da ciò di cui esso è il segno
  3.     Corollario: il differire tra le differenze è identico al differire tra l’identità e le sue differenze
  4.      Nota
  5.      Passaggio
  6.      Identità semantica tra "essente" ed "esistere". Differenza tra tale identità e il "certo essente"
  7.      Ancora sulla medesimezza tra "essente" ("qualcosa") ed "esistere"
  8.      Risolvimento di un'obiezione
  9.      Totalità dell'identità di "esistere" e "qualcosa"
  10.      Passaggio
  11.      Contraddizione della distinzione semantica tra "esser sé" e "non esser altro"
  12.      Essere uguale a sé, non essere il nulla
  13.      Passaggio: essere significa apparire
  14.      Contraddizione di un'ipotesi
  15.      Replica e soluzione
  16.      Nota 1ª
  17.      Nota 2ª
  18.      Ripresa: indistinzione veritativa tra "logico" e "fenomenologico"
  19.      L'apparire include se stesso come incompiuto
  20.      Ancora sul senso dell'apparire. Corollario: l'autocoscienza come coscienza totale della coscienza finita
  21.      Passaggio
  22.      Rapporti di coincidenza e di inclusione tra essenti
  23.      Noesi e dianoesi
  24.      La proposizione: proposizioni analitiche, sintetiche a posteriori, sintetiche a priori

II.       Il fondamento concretamente immediato del manifestarsi della totalità eterna delle parti

  1.     Essere, nulla, non apparire
  2.      L’essere non è il nulla: il nulla come negato e come affermato
  3.      Nota 1a
  4.      Nota 2a
  5.      Corollario: la totalità come oltrepassamento compiuto della parte
  6.      Ripresa: il non apparire come parte contraddicentesi
  7.      Io sono tutto ciò che vedo
  8.     Le parti, in quanto tali, non sono un numero infinito di parti
  9.     Passaggio: tutto ciò che esiste non proviene dal nulla
  10.     L’autofondazione della totalità
  11.     Contraddittorietà della provvisorietà (spuria) dell’essente
  12.      Immediatezza della totalità eterna e mediazione delle sue parti
  13.      Nota
  14.      L’impossibilità che la parte appaia in assenza dell’apparire del Tutto
  15.      Corollario: l’eternità è propria di ogni singolo essente variante
  16.       Necessità e libertà dell’essente, al di fuori delle loro implementazioni nichilistiche
  17.      Passaggio: la variazione della totalità
  18.      Identità semantica tra "tempo" ("luogo") e "parte" ("differenza"). Muoversi rispetto al trascendentale infinito
  19.       Interpretare l’essente

III.   Divenire: aggiungersi e togliersi rispetto all’eternità del cangiante

  1.      La concreta "differenza ontologica" come differenza tra le parti
  2.      Il distinguersi è l’incominciare e cessare degli essenti
  3.      Permanenza onnipresente dell’infinito
  4.      Accadere e non accadere dello stesso essente
  5.      Il fluire del Tutto concreto
  6.      L’apparire dell’eterno: l’eternità di ciò che è destinato a passare
  7.       Necessità del divenire altro, al di fuori della sua contraddittorietà
  8.       Il divenire altro dell’eterno non implica la nullità di ciò che diviene altro
  9.       Stare insieme e distinguersi
  10.       L’identità concreta
  11.      Accogliere il cangiante
  12.      La classe degli essenti, al di là delle teorie di Russell e Severino

IV.  Il primo e l’ultimo evento della struttura concreta: contraddittorietà dell’ampliamento all’infinito delle differenze

  1.     Oltrepassamento già da sempre attuato del tempo e necessità del primo e dell’ultimo sopraggiungente eterno
  2.      Quantificare la struttura infinita
  3.      Necessità dei tempi e necessità che essi siano il differire dell’uguaglianza totale
  4.      L’infinito e il suo compito finito
  5.      L’originario come identico all’Io infinito
  6.      Oltrepassare temporalmente il finito
  7.      Infinità dello sfondo e impossibilità che ogni incominciante sia oltrepassato da altri incomincianti
  8.      Inattuabilità di un cammino che si allunghi all’infinito  
  9.      Il "trascendente" infinito è il "trascendentale", la cui processualità interna è un insieme finito di contenuti
  10.      L’incominciare a spettare necessariamente allo sfondo della struttura infinita è, in quanto tale, un’impossibilità
  11.      Modo contraddittorio e modo necessario di oltrepassare temporalmente il tempo
  12.     Nota prospettica
  13.     L’ultimo "poi" e l’infinito

V.      La molteplicità finita degli essenti come già da sempre inclusa nella struttura infinita che ogni                 essente è
  1.      Gli "altri" sono le differenze di un unico io
  2.      Il trascendentale infinito come necessità che "la costellazione infinita dei cerchi finiti" sia un che di contraddittorio
  3.      Lo sfondo è l’oltrepassamento eterno dell’ "altro": il non apparire di un essente è sempre parziale
  4.      Includere l’altro
  5.      Essenti cangianti che oltrepassano altri cangianti: non ogni evento è un futuro, e non tutti gli eventi sono un                passato
  6.      Non può esistere qualcosa che preceda l’atto iniziale col quale l’eterno si staglia nel fluire finito delle differenze
  7.     La contraddizione: come eternamente avvolta dall’immutabile verità dell’essente, e come oltrepassamento                      diveniente di se stessa
  8.     Ogni essente ("ognuno di noi") è vita infinita che esperisce già da sempre ciò che appartiene alla morte in cui                 consiste il finito
  9.     In ogni essente è destinato a manifestarsi il riunirsi finito degli essenti, e ogni essente è destinato a svelarsi in               ognuno degli essenti di un riunirsi siffatto. Negazione di un progetto denotante un convegno che, all’infinito,                mostra la relazione tra le differenze
  10.      L’infinità della struttura concreta è la negazione che la totalità eterna consista in qualcosa di addizionale rispetto          agli essenti il cui aggiungersi e togliersi è necessariamente posto
  11.     L’autentica matematica: i numeri, nella verità della struttura concreta dell’infinito
  12.     Sincronia del legame tra gli essenti e diacronia del loro distinguersi
  13.     L’identità del molteplice in relazione alla necessità che il passato e il futuro degli essenti non siano una variazione            annientante, ma lascino intatto il modo in cui la totalità eternamente si sviluppa
  14.      Differire e non differire del cerchio infinito della totalità

VI.     Linguaggio veritativo e linguaggio interpretante

  1. Oltrepassare gli artifici ingenui delle interpretazioni del linguaggio
  2. Il linguaggio come decisione pratica: il linguaggio di quest’opera e gli altri linguaggi
  3. Persintassi e iposintassi dell’essente: il linguaggio veritativo e i suoi limiti interni
  4. La struttura dell’innegabile è l’eterno strutturarsi di ogni singolo essente
  5. Illudersi che l’essere non sia l’eterno: cultura tradizionale e filosofia contemporanea
      Nota

VII.    Non accorgersi di essere l’infinito e primo modo esplicito di designare la totalità inautentica: da Talete alla filosofia eleatica

1.    L’eccedenza dell’acqua in Talete
       Note (con riferimenti bio-bibliografici)

2.     L’infinito (ápeiron) inautentico di Anassimandro
         Note (con riferimenti bio-bibliografici)

3.     Anassimene e il principio dell’aria
        Note (con riferimenti bio-bibliografici)

4.     Eraclito: l’incessante trasformazione degli opposti
        Note (con riferimenti bio-bibliografici)

5.      Il numero pitagorico
         Note (con riferimenti bio-bibliografici)

6.       Parmenide: il tentativo mancato di indicare l’autentico senso dell’eterno
         Note (con riferimenti bio-bibliografici)

7.       I "paradossi" di Zenone e la loro soluzione veritativa
         Note (con riferimenti bio-bibliografici)

8.       L’essere infinito e Melisso
          Note (con riferimenti bio-bibliografici)

VIII.  Esposizione sintetica del discorso filosofico di Severino

Avvertenza
  1. Originarietà eterna dell’essente
  2. Il tempo come svolgimento dell’eterno
  3.  Contraddizione della verità e contraddizione dell’errore
  4. Al di là della morte e dell’illusione: coscienza inesauribile del Tutto
  5. Il nichilismo dell’Occidente: filosofia, politica, tecnica

IX.     Ciò che effettivamente si manifesta è l’infinito, la cui finitezza è il contraddirsi del dolore

  1.   La forma della verità come concretezza totale
  2.   Essere la verità e illudersi di non esserlo
  3.    Il contraddirsi autentico e l’impossibilità della "contraddizione C"
  4.    Ancora sulla manifestazione dell’infinito e sulla volontà errante di essere soltanto il finito
  5.    Soluzione di un’aporia
  6.    Il non esser la totalità è identico al non accorgersi di esserlo
  7.    Nascondersi, restando eternamente all’interno della luce concreta della struttura infinita
  8.     Tutto l’essente è l’infinito, l’infinito è tutto l’essente
  9.      L’iposintassi in quanto tale è la terra in quanto terra: l’inesauribile non può includere un processo senza fine, e cioè     non può includere un numero infinito di problemi
  10.     La persintassi è identica all’apparire infinito della totalità concreta degli essenti, che non è né isolato né distinto             dall’iposintassi; e in quanto se ne distingue, esso è lo stesso contenuto iposintattico
  11.      Il sonno e la veglia
  12.      Soffrire è contraddirsi, all’interno della felicità del superamento concreto del dolore
  13.      Delucidazioni, domande, rinvio

Nota bibliografica          

36 commenti:

  1. Ciao Marco, eccomi qui...

    Subito subito, volevo capire di più su questa tua affermazione :

    "io non accetto nemmeno "il punto-base del discorso severiniano quale l'eternità di ogni essente", poiché l'eternità ha, nel mio discorso, un significato diverso da quello cui si rivolge Severino. "

    Questa differenza nel tuo libro non l'ho ancora raggiunta, ci arriverò, ma nel frattempo ti chiedo: quale può essere la differenza tra l'eternità come la intendi tu rispetto a quella severiniana, dal momento che non riesco a scorgere una zona intermedia tra il non essere eterno e l'esserlo....
    Grazie, ciao
    Roby

    RispondiElimina
  2. Strano comunque che tu non l'abbia ancora raggiunta, poiché quella differenza viene mostrata esplicitamente già nell'Introduzione e soprattutto nelle Indicazioni preliminari... (e poi in tutto il libro). Fermo restando che non vi è soltanto differenza tra l'eternità che appare nel mio discorso e quella che appare nei testi di Severino - nel senso che l'eternità è (come in Severino) il non venire e non rientrare nel nulla da parte di ogni essente, e cioè è l'identità ossia l'esser sé di ogni essente -, tuttavia, nel pensiero di Severino, il significato del termine "eternità" è sì strettamente legato a termini quali "esistere", "apparire", "identità", ma non è ad essi assolutamente identico. Nel mio discorso, invece, l'"eternità" è identica non solo a quei termini, ma anche a "totalità", "infinito", "concretezza" e ad ogni altro termine (essente), in quanto ogni essente è identico al Tutto concreto. La differenza tra "eternità" ed "esistere" è semplicemente linguistica (è come dire la stessa parola in inglese o in italiano, tanto per capirci), e si distingue, pertanto, dalla differenza, ad esempio, tra "tavolo" e "mare", che non sono semplicemente due modalità linguistiche di dire il medesimo, bensì sono due differenze reali che appaiono come "essenti" e come "certi essenti".
    Nel cap. I del libro si mostra l'identità semantica tra "esistere", "apparire" ed "essente" (e altri termini ancora), e nel cap. 2 si mostra l'identità semantica tra questi termini e l'"eternità". Vi si sostiene che se l'"eternità" significasse qualcosa di diverso dall'"esistere", questa distinzione sarebbe distinzione di un'identità autocontraddittoria. Quando si afferma che questo tavolo "esiste" si afferma la sua "eternità", perché l'eternità include sé stessa come incominciante e cessante: la totalità include sé stessa come parte.
    In Severino, invece, la totalità concreta dell'infinito non consiste negli stessi essenti di cui appare anche la loro finitezza. Nel libro cerco di indicare appunto la necessità che ogni essente (x, y...) è primariamente il Tutto concreto (cioè ogni essente: ogni essente è ogni essente), il quale è eternamente sé stesso "proprio nel modo processuale in cui da una prima esperienza si procede verso l'ultima".
    Tornando al termine "eternità", in Severino esso si pone nel modo in cui l'immediatezza logica viene (a mio avviso) contraddittoriamente distinta da quella fenomenologica. Poiché, nel mio libro, si mostra invece l'identità assoluta tra logico e fenomenologico (l'essere è l'apparire: ciò cui il linguaggio si riferisce quando dice "essere" è identico a ciò cui il linguaggio si riferisce quando dice "apparire"; l'uomo si illude di indicare significati differenti, la differenza ponendosi invece solo in questo senso specifico dell'illusione interna al linguaggio), e poiché il Tutto infinito non è una dimensione ulteriore rispetto a quella in cui esso esperisce sé stesso in modo temporale, allora è necessario affermare che qualsiasi essente appaia, appare già incluso nella sua eternità concreta (che è lo stesso apparire dell'essente, dunque), e non c'è quindi alcun bisogno di tirar fuori un'immediatezza logica come distinta dall'apparire, in base alla quale si rilevi che ciò che non appare è eterno egualmente.
    Roberto, ti ho risposto in modo non esaustivo, lo sai, ma è un primo approccio dopo il quale, continuando qui la discussione, possiamo, se vorrai, intensificare l'analisi - un'analisi che appare già nel libro, e che è necessario studiare per eliminare le aporie che si possono sollevare intorno al significato indicato dal linguaggio (e non semplicemente dal mio linguaggio).

    Marco Pellegrino

    RispondiElimina
  3. MP =
    “Strano comunque non tu non l'abbia ancora raggiunta, poiché quella differenza viene mostrata esplicitamente già nell'Introduzione e soprattutto nelle Indicazioni preliminari... (e poi in tutto il libro).”

    R =
    Non mi sembra ci sia scritto però in cosa l’eternità consista, dal “tuo” punto di vista, rispetto a quello “di” Severino. C’è sì scritto dell’identità semantica circa i termini “esistere”, “apparire”, ecc. _ tra l’altro questa questione fu la prima cosa che ti obbiettai per email, riportando ampi brani del tuo testo, che quindi avevo letto _ ma non vi si dice, oltre l’identità semantica di cui sopra, come ciò possa costituire una differenza rispetto all’eternità quale significato affermante l’impossibilità che un non-nulla possa esser nulla.
    ……………………………………………………………
    MP =
    “Fermo restando che non vi è soltanto differenza tra l'eternità che appare nel mio discorso e quella che appare nei testi di Severino - nel senso che l'eternità è (come in Severino) il non venire e non rientrare nel nulla da parte di ogni essente, e cioè è l'identità ossia l'esser sé di ogni essente -, tuttavia, nel pensiero di Severino, il significato del termine "eternità" è sì strettamente legato a termini quali "esistere", "apparire", "identità", ma non è ad essi assolutamente identico. Nel mio discorso, invece, l'"eternità" è identica non solo a quei termini, ma anche a "totalità", "infinito", "concretezza" e ad ogni altro termine (essente), in quanto ogni essente è identico al Tutto concreto.

    R =
    Ammettendo, senza concederlo, che eternità sia identica alle parole ‘infinito’, ‘tutto’, ecc., con ciò non si viene ancora a sapere cosa significhi “eternità”, fermo restando che anche per te, come dici qui sopra, essa sia “il non venire e non rientrare nel nulla da parte di ogni essente, e cioè è l'identità ossia l'esser sé di ogni essente”, e se e poiché eternità ciò significa, allora come fai a dire che sbaglio affermando _ nella recensione di IBS_ che anche tu accetti il punto base severiniano, cioè appunto l’eternità dell’essente, quale impossibilità di esser un nulla, sia prima che dopo il suo apparire? Tra l’eternità così intesa e l’esser nulla dell’essente non può esserci un medio, con buona pace di Platone e di tutto l’occidente, onde la differenza che tu scorgi tra le “due” eternità non è tale da scalfire il punto-nodale della faccenda che anche tu condividi, cioè, ripeto, l’impossibilità di esser nulla.

    ........ continua .........

    RispondiElimina
  4. MP =
    “La differenza tra "eternità" ed "esistere" è semplicemente linguistica (è come dire la stessa parola in inglese o in italiano, tanto per capirci), e si distingue, pertanto, dalla differenza, ad esempio, tra "tavolo" e "mare", che non sono semplicemente due modalità linguistiche di dire il medesimo, bensì sono due differenze reali che appaiono come "essenti" e come "certi essenti".
    R =
    Ho scritto sopra “ammettendo senza concedere” relativamente all’identità semantica dei termini da te riportati, cioè "esistere", "apparire", "identità", ecc.
    Vorrei nuovamente sapere in quale auto-contraddizione incorro, oppure quale identità auto-contraddittoria verrei ad affermare qualora sostenessi la differenza tra i concetti di cui sopra. E’ ben vero che tu rispondi a pag. 54, 55 e 56, dicendo : “ è contraddittorio affermare che si manifesta soltanto la parte, appunto perché non può esser visibile che ciò di cui si dice che è parte sia parte senza che la totalità sia in luce. Che si mostri soltanto la parte è un’illusione. “
    Ma certo, verissimo, infatti non si manifesta soltanto la parte simpliciter, bensì la parte ed il suo esser-in-relazione all’altro da sé, cioè la totalità, infatti, come ebbi modo di domandarti, perché _ dal tuo punto di vista _ Napoleone non appare ( più )? Egli è parte della totalità formaliter, non concretamente, perché se così non fosse, se la totalità cioè fosse tutta concretamente “in luce”, napoleone dovrebbe apparirebbe in carne ed ossa, e non secondo “ricordo”. Pertanto ti ridomando: perché Napoleone non appare ( più ) ? Se ritieni, gradirei una risposta “a braccio”, possibilmente esposta in modo diverso da come è esposta dal libro ( per miei ovvi limiti, è chiaro ).

    RispondiElimina
  5. Dici : “Che si mostri soltanto la parte è un’illusione”.
    Ma laddove la totalità concreta dell’essente fosse in piena luce, verrebbe meno la necessità dell’illusione. Ovvero, può sì esserci illusione ma soltanto laddove la luce dell’apparire sia finita, tal da non consentire il mostrarsi della totalità delle determinazioni le quali, proprio per il fatto di esser la totalità, toglierebbe all’illusione la capacità di prender spicco nell’intero _ e nell’interno _ dell’apparire finito; l’illusione sopraggiunge laddove si è isolati dalla interezza delle relazioni eterne degli essenti, poiché, è chiaro, se tali relazioni fossero in luce, l’illusione sarebbe un essente tra gli altri e non l’orizzonte trascendentale in cui si muove e consiste la storia dell’occidente.
    Prosegui dicendo :
    “La totalità è ciò senza la cui posizione nessun essente … potrebbe porsi. …. Se ciò che vedo è soltanto x che nella struttura autentica dell’essere è parte della manifesta totalità in cui consiste x stesso, senza che appaia qualcos’altro, non posso dire che x è parte. Se cioè non posso vedere nient’altro che x, come posso affermare – come si può vedere – che al di là di x esiste qualcos’altro? “
    Lo si può affermare _ lo si può vedere _ perché è impossibile che w, che non appare più, e y che non appare ancora, siano nulla. Pertanto non solo non è contraddittorio distinguere “essere” ed “apparire”, ma è necessario distinguerli, tal che se così non si facesse, verremmo ad affermare che w ed y sono ormai/ancora nulla. Questo è l’autentico vedere, la cui negazione è affermazione della contraddizione per eccellenza, cioè l’identità tra essere e nulla.
    Subito sotto, pag. 56-57, paragrafo 16, NOTA 1°, cerchi di chiarire ulteriormente quanto hai appena affermato. Ora, mi sembra che questa ulteriore esposizione sia necessaria partendo dalla tua presupposizione dell’identità tra “essere” ed “apparire”, ma non necessaria nel momento in cui si vede che tale identità non ha luogo di porsi, perché, ripeto, la distinzione dei due suddetti termini non solo non implica alcuna contraddizione, al contrario, se non fossero distinti, dovremmo ritenere un nulla ciò che non appare più e ciò che non appare ancora.
    Sempre nella stessa pagina 56, una affermazione che mi risulta ostica : cosa può voler dire “stiamo dicendo che al di là di x che appare come parte della totalità, appare quello stesso x in quanto totalità di cui x, inteso come parte, è parte” ?
    Che cosa è x in quanto parte ed in quanto totalità all’interno della quale totalità x è parte? Quell’ “in quanto” vuol dire sub eodem o no? Mi puoi spiegare il senso generale dell’affermazione?
    ……………………………………………………………………

    RispondiElimina
  6. MP =
    “Tornando al termine "eternità", in Severino esso si pone nel modo in cui l'immediatezza logica viene (a mio avviso) contraddittoriamente distinta da quella fenomenologica. Poiché, nel mio libro, si mostra invece l'identità assoluta tra logico e fenomenologico (l'essere è l'apparire: ciò cui il linguaggio si riferisce quando dice "essere" è identico a ciò cui il linguaggio si riferisce quando dice "apparire"; l'uomo si illude di indicare significati differenti, la differenza ponendosi invece solo in questo senso specifico dell'illusione interna al linguaggio), e poiché il Tutto infinito non è una dimensione ulteriore rispetto a quella in cui esso esperisce sé stesso in modo temporale, allora è necessario affermare che qualsiasi essente appaia, appare già incluso nella sua eternità concreta (che è lo stesso apparire dell'essente, dunque), e non c'è quindi alcun bisogno di tirar fuori un'immediatezza logica come distinta dall'apparire, in base alla quale si rilevi che ciò che non appare è eterno egualmente.”

    R =
    Siamo sempre lì, cioè al tuo presupposto identitario tra “essere” ed “apparire”, in questo caso l’identità è estesa anche alla logicità ed alla fenomenicità : l’apparire di Napoleone in quanto immediatezza logica, cioè in quanto è quell’essente che è se-stesso e non Giulio Cesare, è DISTINTO dall’apparire fenomenologico, cioè in quanto napoleone è quell’essente concreto che dovrebbe comparirmi qui davanti guerreggiante e parlante e che invece mi compare solo nel “ricordo”.
    Se non distinguessimo i due momenti, senza peraltro separarli, cioè se dicessimo che apparire logico e fenomenologico sono lo stesso apparire, non potremmo distinguere la notizia dell’esser sé di Napoleone e non altro da sé ( L-imm ) dal suo esser Napoleone in carne ed ossa ( F- imm), tal che dire l’uno sarebbe immediatamente dire l’altro, ma così non è, come si può constatare.
    Di un ‘triangolo-quadrato’ appare la sua L-imm., cioè il suo esser notizia di un impossibile, di un contraddittorio, ma non può apparire la sua F-imm, cioè il suo esser un essente concreto ( = esistente concretamente ) che è impossibile che esista. Ciò accade proprio in virtù della differenza tra L-imm ed F-imm, poiché se fossero indistinguibili, cioè identici, alla notizia di un contraddittorio dovrebbe corrispondere automaticamente un contraddittorio esistente, fenomenologico…
    Questo è quanto per ora :-)
    Ciao e grazie per la pazienza …
    Roby

    RispondiElimina
  7. Mi sembra giusto che io precisi che quanto scrivo è ciò che io ho capito sia di Severino che di te, il che, quasi certamente, può esser molto poco e/o malamente da me inteso, quindi l'intera responsabilità di ogni mio strafalcione ricade unicamente su di me :-)
    Ciao,
    Roby

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  8. ROBERTO: Non mi sembra ci sia scritto però in cosa l’eternità consista, dal “tuo” punto di vista, rispetto a quello “di” Severino. C’è sì scritto dell’identità semantica circa i termini “esistere”, “apparire”, ecc. _ tra l’altro questa questione fu la prima cosa che ti obbiettai per email, riportando ampi brani del tuo testo, che quindi avevo letto _ ma non vi si dice, oltre l’identità semantica di cui sopra, come ciò possa costituire una differenza rispetto all’eternità quale significato affermante l’impossibilità che un non-nulla possa esser nulla.
    Ammettendo, senza concederlo, che eternità sia identica alle parole ‘infinito’, ‘tutto’, ecc., con ciò non si viene ancora a sapere cosa significhi “eternità”, fermo restando che anche per te, come dici qui sopra, essa sia “il non venire e non rientrare nel nulla da parte di ogni essente, e cioè è l'identità ossia l'esser sé di ogni essente”, e se e poiché eternità ciò significa, allora come fai a dire che sbaglio affermando _ nella recensione di IBS_ che anche tu accetti il punto base severiniano, cioè appunto l’eternità dell’essente, quale impossibilità di esser un nulla, sia prima che dopo il suo apparire? Tra l’eternità così intesa e l’esser nulla dell’essente non può esserci un medio, con buona pace di Platone e di tutto l’occidente, onde la differenza che tu scorgi tra le “due” eternità non è tale da scalfire il punto-nodale della faccenda che anche tu condividi, cioè, ripeto, l’impossibilità di esser nulla.

    MARCO PELLEGRINO: Roberto, nel libro tento più volte di esplicare il fondamento dell'affermazione che l'eternità di cui parlo io è diversa da quella cui si riferisce Severino. La semplice affermazione che l'eternità è il non venire e non andare nel nulla da parte dell'essente ha un significato riduttivo e incapace a reggere di fronte al ben più ampio (e anzi infinito) significato che appare nel mio libro. E cioè, il significato "non venire e non andare nel nulla da parte dell'essente" è concreto (e regge) solo se è visto come identico all'"esistere", all'"apparire" e a tutto ciò che, in quanto totalità concreta, è identico ad ogni essente (che include peraltro sé stesso come un distinguersi dall'altro da sé).
    Ripeto molte volte nel libro che l'"esistere" (cioè l'"apparire") è identico all'"eternità", e che la volontà di fondare una "logica", come diversa dall'"esperienza", contraddice sé stessa perché è sempre sull'esperienza concretamente intesa che essa si fonda. Tutto l'essente che non appare, infatti, appare là dove è necessità che appaia, non potendo apparire (= esistere) in ciò in cui è appunto impossibile che appaia, e che è così impossibile per la necessità che le differenze differiscano tra di loro. Inoltre, spiego molto bene nel libro che il "non apparire" si fonda sullo stesso apparire di "tutto" ciò che, al suo interno, è "anche" un non apparire. Mi pare, comunque, che tu non abbia preso in considerazione la parte decisiva, che riguarda pur sempre il senso dell'opposizione tra essere e nulla. Quando parlo del "nulla come affermato" sto parlando appunto del "non apparire" interno all'essere. Ed è sul fondamento dell'affermazione che l'essere è identico al non-nulla, che il nulla, in qualche modo, appare (esiste, è affermato). Se il nulla non fosse affermato, l'essere sarebbe il semplice (sarebbe l'essere di Parmenide: Parmenide non riusciva a pensare il nulla come affermato, o, meglio, lo pensava e, insieme, non lo pensava, cadendo in contraddizione, e pertanto pensava e, insieme, non pensava la parte, il tempo, il divenire, il differire, che nel mio discorso sono lo stesso significato). CONTINUA

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  9. Quando nel cap. I spiego analiticamente il perché dell'identità tra "essente", "esistere" e "apparire" (e altri ancora), appare già il fondamento dell'affermazione che l'"eternità" è ad essi identica.
    Vediamo un po'. Ogni distinzione non può essere distinzione "di nulla", ma "di un essente", ossia "di un identità". L'identità, cioè, si distingue in sé, strutturandosi appunto, in altri termini, come "la totalità delle sue parti". Ciò detto, anche la distinzione, affermata da Severino, tra "eternità" ed "esistere" è necessariamente distinzione di un'identità; se non lo fosse, questa distinzione sarebbe comunque impossibile, perché tra un distinto e l'altro si collocherebbe un nulla. Ebbene, poiché questa distinzione è distinzione di un'identità, e poiché ogni identità include sé stessa come un distinguersi, è necessario (secondo la presupposizione severiniana che l'eternità è distinta dall'esistere, ma, poi, da tutti gli altri termini, a quali invece sto affermando il suo essere identica) che questa identità sia l'unione di "esistere" ed "eternità", una unione che però rende impossibile la distinzione appena posta, così come questa distinzione rende impossibile tale unione, per il motivo che dell'unione si dovrebbe dire che "esiste" e che è "eterna", fermo restando che "esistere" ed "eternità" sono (secondo Severino) distinti; ciò significa che una unione siffatta nega sé stessa, perché vuole tenere fermo, su eodem, che quei distinti sono distinti e sono identici. In quanto così nuovamente distinti (e qui non si può obiettare, come fa spesso Severino in altre occasioni e giustamente da parte sua, che questa "nuova" distinzione è una "ripetizione astratta" della volontà isolante che vuole ripetere quanto è già stato posto), quei termini devono essere uniti da un'altra identità, e così via all'infinito, giacché l'identità non è posta, e pertanto non è posta nemmeno la distinzione.
    Tutto ciò significa che quando affermiamo che questo telefono "esiste" abbiamo già affermato la sua "eternità" (che è lo stesso "apparire", identico a sua volta al Tutto infinito che include questo stesso telefono anche nel suo esser parte, in quanto distinguentesi dagli altri essenti); questo "esistere" è infatti lo stesso non venire e non andare nel nulla da parte di questo telefono, e questa immutabilità è già posta, immediatamente presente. Quando questo telefono si sottrae, non c'è bisogno di fondare qualcosa di "diverso" da esso per dire che è eterno egualmente, perché l'eternità si è già mostrata, altrimenti resterebbe aperta la possibilità che quel telefono non è eterno. E' proprio quel telefono che, immediatamente, appare come il Tutto concreto (poiché il Tutto concreto è tutto, e in questo esser tutto, ogni essente è identico al Tutto, sia che appaia il telefono, sia che appaia una mela etc), e che comprende questo stesso telefono nel suo incominciare e finire ossia nel suo distinguersi dall'altro da sé, è proprio questo essente ad essere già l'eterno (che include appunto sé stesso come sopraggiungente e ritraentesi). Io non mi devo domandare se questo telefono che ora è scomparso esista ancora, è contraddittorio domandarselo, nel senso che la domanda include un contenuto impossibile, poiché il telefono ha già esposto sé stesso come eterno sopraggiungente e dileguantesi. Severino questo lo sa bene, ma commette egualmente l'errore perché vuole, allo stesso tempo, che l'eternità sia fondata su qualcosa di diverso da essa - essa, che appare già come l'apparire stesso dell'essente che include sé stesso come diveniente.

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  10. Andiamo avanti, riporto le tue domande che racchiudono il senso di quel hai detto e che appunto vuoi sapere da me.

    ROBERTO: Ma certo, verissimo, infatti non si manifesta soltanto la parte simpliciter, bensì la parte ed il suo esser-in-relazione all’altro da sé, cioè la totalità, infatti, come ebbi modo di domandarti, perché _ dal tuo punto di vista _ Napoleone non appare ( più )? Egli è parte della totalità formaliter, non concretamente, perché se così non fosse, se la totalità cioè fosse tutta concretamente “in luce”, napoleone dovrebbe apparirebbe in carne ed ossa, e non secondo “ricordo”. Pertanto ti ridomando: perché Napoleone non appare ( più ) ? Se ritieni, gradirei una risposta “a braccio”, possibilmente esposta in modo diverso da come è esposta dal libro ( per miei ovvi limiti, è chiaro ).
    Ma laddove la totalità concreta dell’essente fosse in piena luce, verrebbe meno la necessità dell’illusione. Ovvero, può sì esserci illusione ma soltanto laddove la luce dell’apparire sia finita, tal da non consentire il mostrarsi della totalità delle determinazioni le quali, proprio per il fatto di esser la totalità, toglierebbe all’illusione la capacità di prender spicco nell’intero _ e nell’interno _ dell’apparire finito; l’illusione sopraggiunge laddove si è isolati dalla interezza delle relazioni eterne degli essenti, poiché, è chiaro, se tali relazioni fossero in luce, l’illusione sarebbe un essente tra gli altri e non l’orizzonte trascendentale in cui si muove e consiste la storia dell’occidente.
    cosa può voler dire “stiamo dicendo che al di là di x che appare come parte della totalità, appare quello stesso x in quanto totalità di cui x, inteso come parte, è parte” ?
    Che cosa è x in quanto parte ed in quanto totalità all’interno della quale totalità x è parte? Quell’ “in quanto” vuol dire sub eodem o no? Mi puoi spiegare il senso generale dell’affermazione?

    MARCO PELLEGRINO: Faccio un discorso unico, cercando di rispondere a tutte le tue domande. Intanto ti dico che, poiché sostengo di aver capito il pensiero di Severino (e appare nella sintesi del cap. VIII), quando riproponi il suo discorso dovresti cercare di farmi capire con parole diverse quello che, a tuo parere, non ho capito di Severino. Tutto quello che dici (lo sai bene) lo conosco già, ed è proprio questo che conosciamo entrambi che io critico nel libro. Ti invito, pertanto, ad esporre il pensiero di Severino in modo diverso dal modo in cui lo espongo io nella sintesi e non solo in essa (in tutto libro parlo di Severino, da "La struttura originaria fino a "Oltrepassare"), oppure potresti incominciare a cercare di cogliere il fondamento di quel che dico, e quindi (a mio avviso) cercare di fare dei passi in avanti rispetto a quello che dice Severino (dei passi in avanti perché non è che vada tutto buttato quel che dice Severino, sebbene io dica che è proprio il fondamento del suo discorso ad essere errato; ma che sia errato significa, propriamente - caro Roberto -, che, innanzitutto, ogni linguaggio indica lo stesso significato - e in questo senso io, te, Severino, un bambino e qualsiasi essente, in quanto segni del significato infinito, indichiamo il medesimo significato -, e questo significato include in sé una molteplicità finita di modi in cui esso è indicato - e qui appare la differenza tra il mio linguaggio e quello altrui -, e, ancora, preciso che resta aperta la possibilità - lo dico nel libro - che l'"intenzione" di Severino sia identica alla mia, nonostante io stia "interpretando" il suo linguaggio come indicato da un'"intenzione" diversa dalla mia). CONTINUA

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  11. Ebbene, incomincio a risponderti. Quello che dici intorno all'"illusione" è proprio quello che io nego. Vediamo un po' (poi arriviamo a Napoleone che non appare più).
    L'illudersi è, nel mio discorso, illudersi che non appaia l'infinito concreto. L'infinito concreto è infatti il fondamento di tutto, e cioè anche di sé stesso in quanto finito. E il finito è, in quanto distinto dall'infinito, lo stesso illudersi. La contraddizione C, pertanto, non può esistere. Non può esistere perché è una conseguenza dell'illudersi autentico, cioè dell'illudersi che il Tutto assoluto non sia in luce qui, ieri e domani. Quando affermi (tu e Severino) che il Tutto concreto non appare, ad es., nell'apparire "di questa mia vita", lo affermi perché concepisci il Tutto concreto in modo sbagliato. E quindi sono d'accordo con te: non appare il Tutto concreto, ma non appare perché questo "Tutto concreto", così come lo concepisci tu, NON ESISTE. Tu (e Severino) vorresti che appaia qui, ora, ciò che in verità non può proprio esistere.
    Il vero Tutto concreto, di cui parlo, è la necessità che esso sia ogni essente, nel modo temporale in cui ogni essente è eternamente sé stesso. In Severino, invece, non esiste soltanto il modo temporale, ma anche quello non-temporale; ed è qui la contraddizione. La contraddizione sta nel "ripetere" ciò che è stato già posto: è stato già posto l'"eternamente" (nella mia affermazione in cui si dice che il Tutto concreto è eternamente sé stesso nel modo temporale), ma questo "eternamente" non significa "in modo eterno": l'eternità non è semplicemente un "modo", bensì è "anche" un modo nel senso che include il "tempo", il quale è appunto "il modo" autentico (e unico) in cui l'eterno è eterno, cioè in cui il Tutto infinito è sé stesso. La finitezza di cui parla Severino rende impossibile l'infinità, e l'infinità di cui egli parla rende impossibile la finitezza.
    La contraddizione C è provocata dall'intenzione di porre ciò che (secondo Severino) non si pone concretamente (lo si dice ne "La struttura originaria", e lo discuto in tutto il mio libro e magari in modo più esplicito nell'ultimo capitolo). Ciò che "effettivamente" appare è, nel pensiero di Severino, la verità "finita" che è anche contraddizione C, perché l'infinito semantico rimane chiuso in sé stesso, non consistendo (sempre secondo Severino) negli stessi essenti la cui finitezza è anch'essa in luce. Ma che un qualsiasi essente non sia l'infinito concreto è impossibile, perché l'infinito concreto è tutto, ogni essente. L'infinito concreto è ciò per cui e senza di cui il finito non apparirebbe. Anche nella mente di Severino appare l'autentico apparire infinito, che poi però, il filosofo bresciano, si illude di non aver già posto, ponendo l'"effettivo" come il finito, come se questa penna non fosse anch'essa l'infinito.
    Arriviamo però al punto più complesso. Quando affermo che, ad es., "questa mela" è l'infinito concreto, non affermo certamente che essa lo sia "in quanto è semplicemente un distinto che si distingue dagli altri essenti". Essa è l'infinito, nel senso che, poiché l'infinito è tutto l'essente, e poiché anche "questa mela" è un essente, essa è l'infinito "in quanto l'infinito E' anche questa mela, e in questo ESSERLO appare la relazione tra questa mela ed ogni altro essente, fermo restando l'ALTRO essente rimane, anche, ALTRO". Che sia presente questa mela o qualsiasi altro essente, è presente l'infinito, nel senso che la differenza tra questa mela e gli altri essenti (passati e futuri) è eternamente oltrepassata, ed è eternamente oltrepassata (ecco il punto) "nel modo processuale in cui tale oltrepassamento eterno è identico a sé". CONTINUA

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  12. Il centro del mio discorso è cioè questo: la differenza tra gli essenti è UGUALE alla differenza tra l'identità e le sue differenze. Se questa uguaglianza viene concepita, come accade nel pensiero di Severino, come una DISTINZIONE, allora il finito (la parte, il differire, il tempo) viene ISOLATO (contraddittoriamente) dall'infinito (cioè da sé stesso in quanto è l'infinito). Che l'infinito includa SE STESSO come finito significa, autenticamente, che è proprio LO STESSO ESSENTE (ad esempio il mare) ad essere sia infinito che finito. Contraddittorio NON è che il mare sia l'infinito: contraddittorio è che SOLTANTO il mare, inteso come diverso dagli altri essenti, sia l'infinito. Contraddittorio NON è che il mare sia (anche) finito: contraddittorio è che il mare sia SOLTANTO finito. Concepito come SOLTANTO finito, il mare non esiste, perché la finitezza si fonda su sé stessa in quanto infinità, e se quest'infinità non appare, non appare nemmeno la finitezza.
    Ma poi tu obietti, nuovamente, che quando appare il mare, gli altri essenti non appaiono, e allora l'infinito rimane al di là di ciò che il mare può mostrare. Questa obiezione è la stessa che è stata risolta qui sopra. Provo a delucidare. L'affermazione che, quando appare il mare, non appaiono gli altri essenti, è corretta solo se viene intesa nel modo seguente. Il mare, che in quanto totalità è identico ad ogni altro essente (poiché la totalità assoluta è una), si distingue da sé in quanto è appunto distinto dagli altri essenti. In quanto, nell'apparire del mare, di cui si è detto essere sia totalità che parte, NON POSSONO apparire gli altri essenti, questa IMPOSSIBILITA' è il nulla stesso, cioè è la NECESSITA' che il Tutto concreto NON sia una dimensione in cui appare ciò che, si sta dicendo, NON PUO' apparire. Appunto perché, ciò che appare effettivamente è SIA la totalità SIA la parte; e questa relazione va verso sé stessa in quanto ultimo evento (che è anch'esso sia totalità che parte). Ciò detto, non è che esistano, in quanto totalità, MOLTEPLICI totalità. Se così fosse, questo mio discorso sarebbe contraddittorio. Tuttavia, la molteplicità della totalità è tale ed esiste appunto nel senso che IL MODO in cui la totalità è eternamente identica a sé consiste proprio nella molteplicità, cioè nella parte, nel tempo, nel processo, nella distinzione. Non ci si può illudere che appaia il Tutto concreto, perché l'illusione è, anzi, proprio la volontà che il Tutto concreto non appaia. Se poi questo Tutto concreto viene concepito in modo sbagliato, e cioè come la dimensione (di cui parla Severino) in cui appare "in modo non-temporale" tutto ciò che appare "anche in modo temporale", allora viene affermata la contraddizione C, che dunque è solo conseguenza di questo errore, cioè dell'autentica contraddizione, che consiste appunto nel credere di non essere il Tutto concreto. CONTINUA

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  13. Ci sono gli elementi, ora, per rispondere anche riguardo a Napoleone che non appare più. Nel mio discorso, innanzitutto appare che Io sono l'Uno infinito, sempre e ovunque, anche ora che sto qui (anche) persuaso di avere la capacità di scrivere al computer, e TUTTO ciò che NON PUO' apparire qui, ora, APPARE nello stesso Io infinito che Io sempre sono "in modo temporale", ma in quanto, appunto, tutto quell'essente che non appare qui appare nel MIO PASSATO o nel MIO FUTURO. SE la vita di Napoleone, nell'ordine autentico della successione degli eterni, appare "prima" di questa mia vita attuale, allora è necessario che Napoleone sia, rispetto a questa mia vita attuale, un passato (di questa mia vita attuale).
    In Severino, invece, e lo si mostra esplicitamente sia ne "La Gloria" sia in "Oltrepassare" (ma era già implicito in tutti gli altri scritti precedenti) e soprattutto ne "La morte e la terra", non esiste un "transito" che consenta di affermare che prima della mia nascita e dopo la mia morte appare un'altra vita dell'infinito. Infatti, nel pensiero di Severino, pur essendo diacronica la successione delle terre nei propri cerchi finiti (in cui appare sia la pura terra che la terra isolata, nel loro contrasto), questa diacronia non è quella di cui parlo io, perché, appunto, il cerchio finito è inteso da Severino come "indiveniente", e pertanto è impossibile che da un cerchio "si passi" ad un altro. Nel pensiero di Severino, l'apparire infinito NON include TOTALMENTE se stesso come finito, altrimenti direbbe appunto quello che dico io, e cioè che ogni essente è l'infinito che, in modo temporale, esperisce tutto quello che c'è da esperire. Ne "La morte e la terra" si mostra, infatti, e coerentemente con quanto afferma negli scritti precedenti (il discorso di Severino è coerentissimo, nonostante io stia dicendo che si fonda su un errore: l'errore ha la sua coerenza interna - come Severino peraltro sa bene -, e l'errore di Severino è giunto alla sua rigorizzazione estrema con quest'ultimo suo libro), che con la morte di una volontà empirica, posta all'interno di un cerchio finito che già da sempre conosce la vita di quella volontà, affiora un evento senza tempo in cui Io, che in verità sono quel cerchio, mi lascio indietro il contrasto con l'isolamento - un evento subito seguito dalla terra che salva. Non solo: ne "La morte e la terra" si mostra l'impossibilità (secondo Severino) di "vite precedenti" e di ogni possibile "resurrezione o reincarnazione". Ciò significa appunto che è necessario quell'evento, in cui nulla sopraggiunge, seguito dal sopraggiungere della terra che salva. Queste conclusioni di Severino sono tali perché si presuppone che il modo di essere dell'infinito non sia soltanto quello temporale - ma sia anche quello non-temporale.
    La contraddizione delle conseguenza estreme di Severino può essere espressa dicendo appunto che la diacronia delle terre è, sub eodem, affermata e negata: è affermata perché i cerchi finiti hanno diverse destinazioni, e cioè perché in ognuno di essi appare una terra diversa (sia pura che isolata), giacché è necessaria una diacronia tale che le terre (e i cerchi stessi) differiscano tra di loro; ed è negata, perché non esiste alcun "passaggio" che porti da un cerchio all'altro. Severino risponderebbe: ma è impossibile quel passaggio perché è l'infinito ad includere già da sempre quella diacronia, sì che le terre che sopraggiungono in modo diacronico nei rispettivi cerchi provengono dall'infinito, e pertanto non è necessario quel "passaggio". E questa è la coerenza di cui parlavo sopra.
    Tuttavia, è la coerenza di un errore, perché la diacronia è tale rispetto a SE STESSA in quanto relazione infinita tra le terre, che nel mio discorso appaiono come identiche alla finitezza di cerchi, che sono peraltro un numero finito di cerchi.

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  14. Caro Marco,
    intanto grazie ancora; sarò veloce e lapidario. Ti pongo alcune domande sulla base di alcune tue affermazioni.

    1 ) Dici : " Tutto l'essente che non appare, infatti, appare là dove è necessità che appaia, non potendo apparire (= esistere) in ciò in cui è appunto impossibile che appaia, e che è così impossibile per la necessità che le differenze differiscano tra di loro. "

    R = Che l'essente che non appare "sia impossibile che appaia" significa, non può non significare che continua ad apparire "altrove", quall'altrove _ il quale ovviamente non è un altro mondo ma questo stesso dai "confini" infiniti _ che include la totalità che ha cessato di mostrarsi e che non si mostra ancora.
    Questa tua affermazione, secondo me, nonostante tu lo neghi, ripropone quell'apparire infinito come quel "di più" includente il non apparire più ed il non apparire ancora.

    Che le differenze differiscano giustamente tra loro non impedisce che ci si ponga la domanda del "che ne sia" o "dove stia" ciò che non appare più/ancora, dal momento che questa domanda non implica una contraddizione come invece imnplica il non ritenere che le differenze differiscano tra loro....

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  15. 2)
    MP =
    E' proprio quel telefono che, immediatamente, appare come il Tutto concreto (poiché il Tutto concreto è tutto, e in questo esser tutto, ogni essente è identico al Tutto, sia che appaia il telefono, sia che appaia una mela, etc), e che comprende questo stesso telefono nel suo incominciare e finire ossia nel suo distinguersi dall'altro da sé, è proprio questo essente ad essere già l'eterno (che include appunto sé stesso come sopraggiungente e ritraentesi).
    Io non mi devo domandare se questo telefono che ora è scomparso esista ancora, è contraddittorio domandarselo, nel senso che la domanda include un contenuto impossibile, poiché il telefono ha già esposto sé stesso come eterno sopraggiungente e dileguantesi.

    R = non capisco come un essente possa esser identico al Tutto. E' parte del Tutto, ma non vi coincide, altrimenti quell'essente sarebbe il Solo, ed il Tutto sarebbe solo quell'essente ... Comunque, vado veloce. Se il telefono ha già esposto se stesso come sopraggiungente e come dileguantesi, scusa, sarò stupido, ma ti ridomando che ne era prima che sopraggiungesse e che ne è dopo che si è dileguato...

    RispondiElimina
  16. Riporto un commento di "Parmenide" non pubblicato:

    3 )
    MP = "Intanto ti dico che, poiché sostengo di aver capito il pensiero di Severino (e appare nella sintesi del cap. VIII), quando riproponi il suo discorso dovresti cercare di farmi capire con parole diverse quello che, a tuo parere, non ho capito di Severino. Tutto quello che dici (lo sai bene) lo conosco già, ed è proprio questo che conosciamo entrambi che io critico nel libro. Ti invito, pertanto, ad esporre il pensiero di Severino in modo diverso dal modo in cui lo espongo io nella sintesi e non solo in essa".

    R =
    scusa ma qui non capisco proprio ciò che vuoi comunicarmi. Io non ho mai detto che tu non abbia capito qualcosa di Severino, al contrario! Ti chiedevo soltanto _ prova a rileggere il mio pezzo _ di spiegarmi "a braccio", cioè con parole diverse intese come più comprensibili per me, rispetto a quelle usate nel tuo libro, tutto qui ...

    Non dubito affatto che tu abbia capito Severino: ma ciò non impedisce che, nella tua determinazione a differenziarti da lui, tu ponga delle premesse che non mi sembrano solide, per quel che ne ho capito, è ovvio, e potrebbe esser molto poco.

    Per ora mi fermo qui, sono andato veloce anche perché non mi consente il blog oltre un certo numero di parole, così cerco di essere stringato con tutte le conseguenze negative che ne derivano :-)
    Ciao e grazie,
    e ti auguro un felicissimo e produttivo, filosoficamente parlando, 2012 !!! Auguronissimi di cuore !!!!
    Roby

    RispondiElimina
  17. Ti rispondo Roby, passo dopo passo.

    ROBERTO = Che l'essente che non appare "sia impossibile che appaia" significa, non può non significare che continua ad apparire "altrove", quall'altrove _ il quale ovviamente non è un altro mondo ma questo stesso dai "confini" infiniti _ che include la totalità che ha cessato di mostrarsi e che non si mostra ancora.
    Questa tua affermazione, secondo me, nonostante tu lo neghi, ripropone quell'apparire infinito come quel "di più" includente il non apparire più ed il non apparire ancora.
    Che le differenze differiscano giustamente tra loro non impedisce che ci si ponga la domanda del "che ne sia" o "dove stia" ciò che non appare più/ancora, dal momento che questa domanda non implica una contraddizione come invece imnplica il non ritenere che le differenze differiscano tra loro....
    Non capisco come un essente possa esser identico al Tutto. E' parte del Tutto, ma non vi coincide, altrimenti quell'essente sarebbe il Solo, ed il Tutto sarebbe solo quell'essente ... Comunque, vado veloce. Se il telefono ha già esposto se stesso come sopraggiungente e come dileguantesi, scusa, sarò stupido, ma ti ridomando che ne era prima che sopraggiungesse e che ne è dopo che si è dileguato...

    MARCO PELLEGRINO: l'"altrove" di cui parli non appare, non esiste. Tuttavia un "altrove" esiste, ma è quello stesso che, in quanto distinto da ciò rispetto a cui si costituisce tale altrove, rimane in sé stesso come ciò che è impossibile che appaia all'interno di ciò in cui, appunto, non può apparire (nemmeno in un presunto apparire infinito che sia "irriducibile" a tutto ciò che gli essenti, che si mostrano nel processo dell'infinito, sono).
    Roberto, quando parli dell'apparire infinito come un "di più" includente quel che non appare più e che non appare ancora, non ti avvedi che io non lo nego affatto. Anzi sto cercando di affermarlo eliminando quelle contraddizioni che in Severino permangono ancora e l'insieme delle quali si struttura proprio al fondamento del suo discorso (che rimane il più grande discorso filosofico: al di là delle analisi e degli "scritti" di Severino io ritrovo in lui quel "sentire di essere il Tutto eterno, destinati alla felicità infinita", che pone in secondo piano queste nostre discussioni e questo mio stesso aver pubblicato un libro criticando il Maestro). Il "di più" non è costituito da essenti diversi da quelli finiti, ma dagli stessi. Questo è il punto. CONTINUA

    RispondiElimina
  18. Dunque: il vero apparire infinito, essendo "ciò da cui, per cui e senza di cui" nulla potrebbe essere affermato (poiché è la totalità ad includere sé stessa come parte), è sì, come dicevi, ciò che "include" sia il non apparir più sia il non apparire ancora; sennonché, l'errore sta nel pensare che questa "inclusione" AGGIUNGA qualcosa nell'infinito rispetto agli essenti di cui si dice che sono ANCHE finiti (anche: appunto perché sono anzitutto l'infinito stesso la cui finitezza appare insieme ad esso, dappertutto, e pertanto questa è l'autentica "struttura originaria"). Guarda, ti riporto, al riguardo, un passo del mio libro:
    "L'eternità è l'eternità DEL FLUIRE LIMITATO DELLE DIFFERENZE, e questo fluire è il fluire DELL'ETERNITA' CONCRETA DELL'INFINITO. Proprio per questo, il vero 'apparire infinito' NON ha in sé alcunché di ULTERIORE rispetto a tutto ciò che è destinato a mostrarsi nel processo finito degli eterni; e proprio per questo, esso può essere ed è necessario che sia l'apparire INFINITO dell'essente: è INFINITO, cioè, appunto perché NON AGGIUNGE ulteriori significati al modo in cui gli eterni SI AGGIUNGONO nell'attualità. Il movimento addizionale degli essenti è la necessità che tutto ciò che è essente sopraggiunga - è contraddittorio che esista qualcosa di immutabile SENZA che esso sia (anche) un aggiungersi e un togliersi (un cangiante) -, in modo tale che appaia che ogni essente è una PARTE del Tutto, all'interno del SUO essere il Tutto stesso di cui è parte".
    Ecco Roberto che, dunque, io non nego l'apparire infinito, bensì lo colloco come il fondamento assoluto, giacché il finito non ricorre all'infinito l'infinito - non ha senso che si rincorra ciò che non si può raggiungere. Infatti, l'infinito appare già, e non c'è alcun bisogno di corrergli dietro. Tuttavia, l'infinito, che appare già da sempre (nel passato e nel futuro), è la comprensione eterna di sé stesso "proprio nel modo in cui le parti differiscono tra di loro". CONTINUA

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  19. Ogni essente (anche questo tavolo) è non-sopraggiungente e non-cessante, e lo è includendo sé stesso come sopraggiungente e cessante. In quanto questa mia vita è il fondamento del suo sopraggiungere e cessare, questa mia vita non è diversa dalla tua e da ogni altra vita - e questa non-diversità non elimina la diversità che tra di esse appare all'interno dell'infinito (che è la stessa non-diversità: è questa stessa, nel modo in cui essa stessa include sé stessa come una serie finita di vite diverse). Tale non-diversità assoluta, che è tale nel modo in cui questa mia vita è (anche) differente da ogni altra, è il "legame" che unisce la totalità del passato alla totalità del futuro. Sennonché, questo "legame" non appare in un apparire che sia supplementare rispetto alla struttura di cui stiamo parlando: la struttura originaria che è la coscienza di esser qualcosa invece che nulla, una coscienza non semplicemente distinta da questo tavolo, questo mare etc, bensì in quanto è l'unità di questo tavolo, questo mare etc, un'unità che, in sé, si distingue, e questo distinguersi è la modalità (temporale) attraverso la quale l'infinito è infinitamente sé stesso. E' già questo l'infinito. Non c'è bisogno di rinviare l'apparire del Tutto in qualcosa che, non apparendo originariamente, non potrà mai apparire (ossia è nulla).
    Il problema che ti poni quando mi dici: "Se il telefono ha già esposto se stesso come sopraggiungente e come dileguantesi, scusa, sarò stupido, ma ti ridomando che ne era prima che sopraggiungesse e che ne è dopo che si è dileguato", quando ti poni questo problema, hai perso di vista il senso autentico dell'affermazione che la totalità (cioè ABC) include sé stessa come parte (cioè come gli stessi A, B, C, ma in quanto distinti tra di loro e mostrantesi in una serie temporale - eternamente strutturata, questa eternità essendo lo stesso ABC infinito). Il telefono (A), infatti, in quanto incluso in sé stesso (A) nel suo esser infinito, è ABC, ma non in senso contraddittorio (cioè non nel senso che A sia, in quanto diverso da BC, identico a BC), bensì nel senso che il differire tra A, B e C (un differire che è tale in una sequenza) è il differire di qualcosa che, in quanto NON è il SEMPLICE esser qualcosa come DISTINTO da ABC di cui si afferma che è appunto qualcosa e non il nulla, consiste appunto negli stessi essenti (ABC) i quali, non venendo e non andando nel nulla, includono sé stessi (A, B, C) come un venire e un andare. E' ABC ad essere A, B e C. Il Tutto concreto è l'unione di ABC, ma questa unione non è contraddittoria solo se include gli stessi A, B, C come distinti tra di loro. Cioè quando dico: "l'unione", dico "anche" il distinguersi tra A, B, C. Se isoliamo questa unione dal suo essere anche tale distinguersi, allora cadiamo in contraddizione, e concepiamo tale ABC come un D, cioè come qualcosa di ulteriore rispetto agli essenti di cui appare il differire. Questo D è contraddittorio, perché intende essere, allo stesso tempo, l'unione di tutto e una sua parte. Infatti, anche D si distingue da ABC, e pertanto, continuando su questa linea illusoria, andiamo alla ricerca di qualcosa (E) che includa sia D sia ABC, e così via all'infinito, sì che il Tutto non è mai posto, e pertanto non è posto nulla. L'apparire infinito cui si rivolge Severino intende essere quel D che, appunto, finisce poi con l'essere rincorso all'infinito dal finito. Il Tutto, in Severino, rimane un mistero.

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    1. E infatti, Marco, non a caso vado sottolinendo da tempo che il quadrato nero 'perimetrato' dalla scritta "et sic in infinitum", tratto da un'opera di Robert Fludd, riportato sulla copertina viola di "Essenza del nichilismo", rinvia per l'appunto a 'quel' mistero...

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    2. Bene Paolo, bene. Sottile osservazione.

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    3. Sottile l'osservazione, quanto potente il 'concentrato' messaggio veicolato in tal modo, caro Marco. Nel 2006, alla Fiera del Libro di Torino, mentre io presentavo la T-shirt D'IO, il rotondo stand dell'Adelphi era interamente concepito e strutturato intorno a quella severiniana 'ineffabile essenza'... Ed è già dal 2000 che ebbi occasione di chiedere 'ragione' allo stesso Severino del - necessario - rapporto fra il suo approccio filosofico e la dimensione cosiddetta mistica.

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    4. Per quanto riesco a ricordare fatta salva la 'ruggine' degli anni e la 'stanchezza della filosofia', ad una mia osservazione sulle implicazioni del senso dell'ente così come inteso ne "La struttura originaria", Severino convenne con me - diciamo così forse un po' evasivamente - sulla 'possibilità del mistico' nel suo discorso. Tuttavia in quel contesto - una conferenza pubblica - non vi fu la possibilità di affrontare il rigoroso dettaglio logico-argomentativo che, a mio avviso, riconduce l'ente come Severino lo ha ri-de-finito e 'gestito' allo stesso "Ni-ente" di cui argomenta Cacciari nel suo "Dell'Inizio". In questo senso, nel mio "CortocircuitOne" - su di un trasversale 'fronte ultra-filosofico' - avevo posto 'en passant' la questione del rapporto fra ciò che chiamavo intensionalità ed estensionalità dell'ente, in relazione al problema della sua identità. Cfr. https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=10152507746691384&id=184810381383

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    5. Nel 2000... Severino stava ormai ultimando "La Gloria" (2001). Comunque, se la parola "mistico" si riferisce al "mistero" inteso come "distinto" da sé nel suo esser ciò di cui il "mistero" è tale, allora, nel discorso di Severino, pur prevalendo la volontà di indicare la "Gioia inesauribile del Tutto" come l'infinitamente inoltrepassabile (la stessa volontà dominando, benché in modo diverso e tenendo presente il disaccordo di linguaggio tra Severino e Cacciari, nelle opere "Dell'Inizio" e "Della cosa ultima"), ciò che effettivamente si realizza (stando al mio discorso) con tale volontà (errante di potenza) è ciò che Severino, ne "La morte e la terra", chiama "l'Indecifrabile", includente il desiderio di un oltrepassamento mai concluso (cioè all'infinito) del dolore e della contraddizione, e quindi del desiderio di qualcosa che, contro le stesse intenzioni esplicite di Severino, è pur sempre una "parte" del Tutto.

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    6. E, alla luce del tuo dire, il severiniano indecifrabile avrebbe dunque - ancorché implicitamente - carattere nichilistico?

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    7. Certo Paolo, il Nichilismo autentico prevale anche nel linguaggio di Severino, sin da "La struttura originaria".

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    8. Allora bisognerà farglielo presente. Altrimenti va a finire che "il là che è anche il più vicino dei qui" non si trova più né qui né là... :-)

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  20. Ti rispondo, comunque, "a braccio", riguardo alla tua affermazione: "Che le differenze differiscano giustamente tra loro non impedisce che ci si ponga la domanda del "che ne sia" o "dove stia" ciò che non appare più/ancora"

    Quando dico che questa domanda è contraddittoria, lo dico nel senso che ogni singolo essente (qualsiasi) non si sposta, non esce da sé stesso perché non è mai entrato in sé stesso. E questo lo sai bene. Ora però, quello che si tratta di capire è che ogni essente è eternamente presso di sé "solo in modo temporale". Chiedersi, dunque, dove sia finito quell'essente che poco fa appariva, significa non avvedersi che quell'essente che prima è apparso è il Tutto concreto, e in questo senso non è vero che non appare più (poiché il Tutto è tutto, ogni essente, giacché che appaia questo o quell'altro essente non smentisce il loro essere l'essente, ossia il Tutto); sennonché, quell'essente, che appare sempre, appare già da sempre "nel modo in cui esso, in quanto parte, deve scomparire col sopraggiungere di ciò che lo oltrepassa". E questo scomparire non è comunque l'assenza assoluta di quell'essente, poiché in ogni essente appare, "come atteso o come passato", ogni altro essente. Dunque, gli essenti che sono scomparsi sono rimasti in sé stessi nel modo preciso in cui sono apparsi, e cioè nel loro essere il Tutto concreto e anche parte di esso. Tuttavia, in quanto è il Tutto eternamente strutturato ad esperire in modo temporale tutte le esperienze, gli essenti passati sono presenti innanzitutto nel senso che, essendo legati a quelli del presente (e del futuro), sono identici a questi ultimi, e in questa identità appare che in questo stesso essente del presente si manifestano gli essenti passati "come passati", accanto a ciò che questo essente del presente è, in quanto distinto dall'altro da sé.

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  21. Ciao Marco! Eccomi! A tempo perso (si dice così...) sto lavorando al tuo libro. Un ottimo libro. Prima o poi sarò in grado di esternare giudizi più profondi. Ma per ora vorrei segnalarti alcuni errori che ho trovato nel paragrafo secondo del capitolo Primo (p. 41-42, un paragrafo peraltro fondamentale a riguardo del “segno”). Errori, sviste o disattenzioni terminologiche che rendono la lettura inutilmente faticosa, in una parte peraltro così decisiva. Non penso di aver frainteso, perché per il resto il discorso mi sembra piuttosto chiaro. Quindi penso si tratti proprio di errori!
    Innanzitutto questa frase:
    “Infatti, che in G1 sia presente il segno di G2 (e viceversa) significa che G1 è non-G2, è la negazione di G2, ossia è G2 come diverso da G1: G1 è G1 e non-G2, ossia è G1 e coincide, distinguendosene, con G2 (giacché l’‘esser non-G2’ – il ‘non esser G2’ – da parte di G1, è identico al ‘coincidere’ con esso).”
    Giusto che G1 sia non-G2, ma G1 non può essere, come tu scrivi, “G2 come diverso da G1”, perché in realtà “G2 come diverso da G1” è proprio G2 come negazione di G1, cioè è lo stesso G2. G1 è certamente, nel caso considerato, G2 come negato, ma non può essere “G2 come diverso da G1”!
    Quindi anche l’affermazione seguente risulta molto strana, cioè “G1 coincide, distinguendosene, con G2 (giacché l’‘esser non-G2’ – il ‘non esser G2’ – da parte di G1, è identico al ‘coincidere’ con esso). Da qui proprio non si può capire cosa significhi coincidere!
    Poche righe dopo, a p. 42, si ribadisce: […] “G1 è G2 come negato e lo include come affermato [tutto ok]. Ciò che G1 oltrepassa (include) non può essere G1 come negato, perché ‘come negato’ significa ‘come oltrepassato’, ed è contraddittorio che qualcosa (G1) oltrepassi qualcos’altro (G2) come oltrepassato: ogni essente è ogni altro essente come oltrepassato, cioè oltrepassa il suo non essere ogni altro essente”.
    Ora, queste affermazioni sembrerebbero chiare, e la conclusione perspicua, solo se si fosse detto, all’inizio, che “ciò che G1 oltrepassa (include) non può essere G2 come negato” e non “ciò che G1 oltrepassa (include) non può essere G1 come negato”. Cosa c’entra qui G1 come negato? (Questo, diversamente dal precedente, può essere solo un refuso...)

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    1. Ciao caro Pietro! Sull’ultimo refuso hai ragione, è proprio un refuso, intendevo cioè, come hai ben detto, “ciò che G1 oltrepassa (include) non può essere G2 come negato” (semplicemente un refuso). Grazie comunque, non me n’ero accorto.

      Per quanto riguarda, invece, l’altro presunto errore da te rilevato, qui l’errore non c’è, diciamo solo che il linguaggio fa brutti scherzi. Si tratta di intendersi sul significato delle espressioni che usiamo. Vediamo un po’ nel caso specifico.
      Quando affermo che G1 è G2 come diverso da G1, se hai notato, nel libro, metto in corsivo sia l’ “è” sia l’espressione “come diverso”, appunto per chiarire che in quanto un essente (ad es. G1) si distingue da un altro essente (G2), G2, essendo necessariamente (come mostro nel libro, soprattutto nei capp. III, IV, V) un passato o un futuro rispetto a G1 (essendo impossibile cioè una sincronia tra essenti “in quanto si distinguono”), è inevitabile che esso (G2) appaia all’interno di G1, e vi appaia appunto “come atteso” oppure “come passato” (dipende dall’ordine della successione degli eterni, un ordine già da sempre stabilito nonostante il linguaggio non sia ancora in grado di indicarlo). Ecco spiegata allora quell’espressione “come diverso” di cui parlavamo. Intendo dire che G1, in quanto parte (del Tutto, in cui consiste lo stesso G1 e ogni essente, poiché il Tutto è, appunto, tutto: ogni essente), è l’unità del modo in cui G1 è G1 distinguendosi da G2, e del modo in cui G2 è presente (come passato o come futuro: come diverso) in G1.
      Chiarito ciò, dicevi anche di non capire quel “coincidere” di cui parlo nel paragrafo 2 del cap. I. Vediamo anche qui. Quando parlavo di “coincidenza” mi riferivo a “ciò che vi è di identico, parzialmente, nelle differenze”. Rimanendo a G1 e G2, diciamo allora: G1 “coincide” con G2 nel senso che sono entrambi delle “parti”, e poiché una parte differisce dall’altra, fermo restando che le parti, in quanto parti, sono identiche parzialmente “come parti” (e fermo restando che questa identità parziale è la stessa differenza parziale, nel senso che le differenze non differiscono tra di loro in modo assoluto, altrimenti sarebbero isolate e non sarebbero tutte all’interno di un’unica totalità), allora ne viene che G1 “coincide” con G2 proprio nel senso che G1 e G2, in quanto differenti tra di loro, non possono essere assolutamente identici, e non possono essere nemmeno in un rapporto di inclusione (a meno che non ci si rivolga alla necessità che G1 includa G2 come atteso o come passato e viceversa), e pertanto “coincidono”.
      Spero di essere stato chiaro.
      A presto Pietro!

      Marco

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  22. Grazie Marco, sei stato chiaro. Però, considera che se non l'ho capito io (che in qualche modo sono "addentro") quanti potranno capirlo? E' un peccato, perché per il resto, fin dove ho letto (e ho letto anche molte altre parti), ti esprimi molto chiaramente... (Ma pure nel paragrafo precedente, scusa la pignoleria, quando citi Frege, c'è una lunga frase dove l'esplicitazione dei soggetti avrebbe semplificato la comprensione. Difettano infatti, proprio nella conclusione, alla fine di p. 40, alcune concordanze grammaticali). Qui è difficilissimo arrivarci, non penso proprio bastino i corsivetti che citi all'"è" e all'espressione "come diverso"! Anche se il senso sembra poi, come mi hai spiegato, filosoficamente trasparente.
    Tutte le cose si “embricano” le une nelle altre (un po’ come nella monadologia di Leibniz), in forma di “tratti”, “tracce” o “segni”, questo è chiaro; si “embricano” già per il fatto stesso di “distinguersi”, essendo la distinzione il modo in cui le cose si affettano reciprocamente col “non-essere” l’una quel certo essere che è l’altra. Così accade anche in un mondo supposto a due elementi o parti (G1 e G2), come nell’esempio considerato. E’ quindi necessario che nell’ente G1 ci sia la traccia (il segno) di G2 “come diverso” dallo stesso G1, nonostante questo segno, questo tratto (oltre ad essere un “tratto” di G2, vale a dire “riverberante” G2 in G1) appartenga in proprio a G1, cioè sia materia del suo stesso essere, sia cioè un “tratto” di G1. (Continuando ad appartenere in proprio anche a G2, in quanto “suo tratto”, sua espressione in G1). (Stando così le cose forse avresti dovuto scrivere che “in G1” c’è G2 “come diverso” da G1, e non che G1 “è” G2 “come diverso” da G1...)
    Vorrei aggiungere: in questo “tratto” le due parti (G1 e G2) “coincidono”, e il tratto stesso è la loro “identità parziale”.
    Ma se così fosse, allora, dove la coincidenza si distinguerebbe dall’inclusione? Quando diciamo che G1 include G2 “come affermato” (G1 infatti è “non-G2”, e in “non-G2” si annida l’affermazione di G2) non stiamo già attestando la presenza implicita di G2 come segno in G1? L’inevitabile presenza del tratto di G2 in G1…
    E’ poi veramente indistinguibile questa “identità parziale” dalla pur necessaria “differenza parziale” che affetta le due parti? Voglio dire: è chiaro che in generale dire che c’è “identità parziale” vale quanto dire che c’è “differenza parziale”, ma non possiamo dire di più?
    Inoltre: a riguardo della tua categorizzazione sulla temporalità, all’impossibilità della “sincronia tra essenti”, penso che avrò delle obiezioni da farti, nonostante mi sia trovato in passato a pensarla per motivi scientifici – non filosofici – in modo simile.
    A presto e ciao!

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  23. Carissimo Pietro. Ti rispondo scendendo ancora di più nell’analisi.

    1) Quando affermi: “avresti dovuto scrivere che “in G1” c’è G2 “come diverso” da G1, e non che G1 “è” G2 “come diverso” da G1″

    ti rispondo nel modo seguente: G1 (ad esempio “la mia vita”) è sia un ESSER G2-come-atteso (ponendo che G2 è “la tua vita”, la quale è un futuro rispetto alla mia), sia un INCLUDERE G2-come-atteso. Infatti, il centro di tutto il discorso de “La struttura concreta dell’infinito” è questo: la totalità consiste negli stessi essenti in cui consistono le sue parti, giacché la totalità è sé stessa nel modo in cui le sue parti si distinguono tra di loro – la differenza tra le parti essendo la stessa differenza tra parte e totalità (nel senso che le espressioni “differenza tra parte e totalità” e “differenza tra le parti” sono semanticamente identiche, e si distinguono solo all’interno di un certo linguaggio). Ciò significa che G1 è la sintesi del modo in cui esso è G1 distinguendosi da G2 e del modo in cui G2 appare, come atteso, all’interno dell’apparire di G1; sì che G2-come-atteso è sia identico a G1, in quanto G2-come-atteso è unito al modo in cui G1 è G1 e non-G2, ed è anche “incluso” in G1, nel senso che è anche parte dell’essente G1.

    CONTINUA

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  24. 2) Poi scrivi: “Vorrei aggiungere: in questo “tratto” le due parti (G1 e G2) “coincidono”, e il tratto stesso è la loro “identità parziale”.
    Ma se così fosse, allora, dove la coincidenza si distinguerebbe dall’inclusione? Quando diciamo che G1 include G2 “come affermato” (G1 infatti è “non-G2”, e in “non-G2” si annida l’affermazione di G2) non stiamo già attestando la presenza implicita di G2 come segno in G1? L’inevitabile presenza del tratto di G2 in G1…E’ poi veramente indistinguibile questa “identità parziale” dalla pur necessaria “differenza parziale” che affetta le due parti? Voglio dire: è chiaro che in generale dire che c’è “identità parziale” vale quanto dire che c’è “differenza parziale”, ma non possiamo dire di più?”

    Ti rispondo: per quanto concerne la “coincidenza”, approfondisco la questione parlando di due sensi del coincidere: quello generico, che è quello tra le parti, le quali non essendo, in quanto parti, assolutamente identiche tra di loro, e che in questa genericità non sono in un rapporto di inclusione, diciamo allora che, nel loro essere diverse e sopraggiungenti una dopo l’altra (prima G1 poi G2 e così via), coincidono; il senso specifico del coincidere, riguarda invece la coincidenza tra il modo in cui G1 non è G2 e il modo in cui G2 appare incluso (come atteso; o, possiamo anche dire, come passato; in generale: come diverso, cioè come non presente) in G1.
    Per quanto riguarda l’ “identità parziale” e la “differenza parziale”, quando mi chiedi “non possiamo dire di più?”, certamente possiamo parlare dei significati “identità”, “differenza”, e del modo in cui si distinguono, ma in quel caso io intendevo semplicemente mettere in luce che l’espressione “identità parziale” (nella sua unità) è la medesima “differenza parziale” (nella sua unità). Vediamo in concreto: in G1 appare incluso sia il modo in cui G1 è G1 distinguendosi da G2, sia il modo in cui G2 è atteso da G1. Questi due modi, come abbiamo già mostrato qui sopra, coincidono distinguendosi tra di loro (apparendo anche la differenza tra la coincidenza e l’inclusione). Ebbene, l’ “identità parziale” è rintracciabile appunto nel modo in cui G2 è presente, come atteso, all’interno di G1; e la “differenza parziale” è rintracciabile dal numero finito di modi in cui G1 è G1 distinguendosi da G2. Ma, caro Pietro, quando affermiamo questa “identità parziale”, tale “parzialità” sta già ad indicare quella “differenza” (parziale), e viceversa. E cioè: l’identità parziale è parziale per via dei modi in cui G1 si distingue da G2, e la differenza parziale è parziale per via del modo in cui G2 è atteso da G1.

    3) Per quanto riguarda la “sincronia tra essenti” ti avverto che non ho affermato che sia impossibile tale sincronia: affermo che, “in quanto le parti si distinguono tra di loro”, ogni parte è posta in modo diacronico rispetto alle altre. Ma ciò non significa affatto l’impossibilità della sincronia, anzi: la sincronia è necessaria, perché le parti sono in relazione, e in questa relazione sono la stessa Totalità, l’Uno. Comunque, poi magari approfondiamo anche qui su questi punti.

    Ci sentiamo Pietro!

    Marco

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  25. Ciao Marco. In che modo l'essere sempre presente del tutto, esclude il solipsismo?

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  26. Ciao! Il Solipsismo è proprio ciò che il mio discorso critica e nega nel modo più radicale possibile. Il Solipsismo è legato all'illusione che gli individui siano SOLTANTO distinti tra di loro, giacché, in questa illusione, si crede che essi siano SEPARATI, ISOLATI, il che è impossibile. In verità, gli individui (le parti interne al Tutto) sono ANCHE distinti, sul fondamento della LORO stessa UGUAGLIANZA. Ciò significa che un conto è credere in sé stessi escludendo da sé gli altri (Solipsismo), un conto è accorgersi che il vero esser sé stessi è l'esser sé del Tutto che ognuno di noi è in verità, non escludendo da sé gli altri bensì includendo ogni senso dell' "altro", escludendo da sé soltanto ciò che noi non possiamo mai essere, escludendo cioè il nulla assoluto in quanto dimorante eternamente al di fuori del Tutto.
    Ciò significa che siamo destinati a renderci sempre di più conto di essere l'Io del Tutto, dove le individualità, in quanto (anche) DISTINTE tra di loro, non vengono cancellate epperò non prendono spicco poiché a brillare è la LORO UNIONE CONCRETA. Questa unione concreta è destinata a lampeggiare (prevalere) DOPO il prevalere di ciò che, ancora oggi, è quantomai nella luce, dopo cioè il prevalere dell'individualità (ossia della parte, ossia del contraddirsi, ossia del dolore, nel suo senso più ampio). Si tratta cioè di entrare nell'ottica di essere un tutt'uno, ed è appunto questo tutt'uno, che noi in verità siamo nel profondo, ad esser destinato al prevalere della propria coscienza di essere, appunto, TUTTO e non soltanto una parte. Le parti sono cioè i MODI in cui l'Io del Tutto (la sincronia eterna) vede sé stesso, in una diacronia. Per ora e per lungo tempo ancora, questi modi sono destinati a prevalere su ciò (il Tutto) di cui essi son modi. Ma è destino che, ancora più lontano nel futuro, sia proprio il Tutto a prendere spicco sui propri modi, tenendo presente che il Tutto e i propri modi consistono in verità negli stessi essenti (fiore, stella, ecc.).

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