lunedì 8 maggio 2017

La morte: differenze tra il mio discorso e quello di Severino



Riportiamo ora un estratto di Silenzi e respiri del destino (pp. 496-497).

Nel discorso di Severino:
1) ogni «morto» vive solo un «istante» prima che si faccia innanzi la tanto attesa «terra che salva» e cioè la stessa «Gloria della terra e della Gioia del Tutto». La morte della «volontà empirica», che si mostra nella terra isolata che in ogni cerchio appare, è l’affacciarsi di un «unico evento» in cui si svela, in una sincronia, l’interezza della «vita» appena morta, subito dopo il quale evento viene oltre-passata definitivamente la totalità infinita delle terre isolate. L’inizio di questo oltrepassamento è, insieme, il «venerdì santo», la «pasqua» e la «terra che salva», è cioè l’inizio della «Gloria della Gioia». Ma prima che sopraggiunga la terra che salva, è necessario che muoiano tutte le volontà empiriche. Quando muore una di esse (quando cioè sta per morire, prima che sopraggiunga quell’«istante») non muore l’altra, cioè muoiono comunque in tempi diversi, perché diverse sono le loro destinazioni, e diverse sono le terre e i cerchi a cui appartengono. Tuttavia, quando una volontà empirica muore, la coscienza del cerchio in cui essa è morta non deve attendere la morte delle altre volontà empiriche, perché ogni morte è su un piano superiore rispetto al piano sul quale si trovano tutte le «vite» destinate a morire, giacché, morendo, si sale su un piano dove anche le altre morti son giunte, ed ecco allora che, dopo appunto l’«istante» di ogni morte, sopraggiunge la tanto attesa Gloria della Gioia;
2) la Gloria è un infinito allargarsi, dispiegarsi verso sempre più ampie prospettive finite di illuminare la luce infinita del Tutto (che in quanto assolutamente infinita rimane «indecifrabile» lungo tutto il cammino all’infinito della Gloria);
3) «ognuno di noi» è destinato, prima dell’avvento della terra che salva, a esperire in modo congruente l’esperienza della terra isolata di «ogni altro»; ed è destinato, con quell’avvento, a esperire, come esperienza della terra isolata di «ogni altro» (e cioè non in modo congruente), l’esperienza della terra isolata di «ogni altro»; ed è destinato, sempre con quell’avvento, a esperire in modo congruente l’esperienza della terra che salva di «ogni altro» – essendo impossibile che, con quell’avvento, venga esperita, come esperienza della terra che salva di «ogni altro», l’esperienza della terra che salva di «ogni altro», perché, se così accadesse, sopraggiungerebbe nel finito l’infinità del Tutto concreto in quanto sfondo infinito e cioè in quanto assolutamente non-sopraggiungente (un sopraggiungere appunto impossibile).
Nel mio discorso, si esprimono invece le seguenti riflessioni.
1) Solo dopo l’ultimo «morto» dell’intera Prima Volta sopraggiunge il Ritorno. Ciò significa che se (un qualsiasi) «tu» (o «io») non sei quest’ultimo destinato a morire, con la «tua» morte non affiora il Ritorno, ma un’altra modalità (che magari consiste in un «altro individuo umano» che ora viene interpretato appunto come «un altro» rispetto a quel «tu») di essere la coscienza infinita in quanto inscritta nella Prima Volta. Il processo delle autentiche «reincarnazioni» («vite precedenti e successive») è lunghissimo, e deve essere esperito tutto (proprio da «te», che credi ancora di essere soltanto «te» e invece sei in verità quello stesso «Io infinito del destino» che in verità sono «io» e che in verità è «ogni altro» nel profondo infinito di ogni singolo essente) affinché si stagli il Ritorno degli eterni della Prima Volta. Inoltre, la «morte» di «ognuno di noi» non è un «istante» bensì la relazione di due istanti che sopraggiungono brillando uno dopo l’altro: il primo istante raccoglie sincronicamente tutto ciò che, nella «vita» appena morta, si manifestava (e si manifesta ancora, in eterno, poiché tutto ciò che appare in modo finito-diveniente appare in eterno) in una diacronia, e il secondo istante anticipa, sempre in una sincronia, gli eventi che dopo tale «morte» costituiranno la «nuova vita», vivendo la quale ci si dimentica di tale morte, della vita precedente e di tutte le eventuali altre vite che precedono quest’ultima.
2) Il viaggio finito dell’infinito, che dalla Prima Volta conduce al Ritorno, è un camminio finito, che cioè si compie (già da sempre nel modo opportuno e cioè finito-diacronico), ossia abbraccia un «ultimo evento». La necessità, poi, che quest’ultimo evento (l’ultimo istante che siamo destinati a vivere nel Ritorno) sia un «perdurare all’infinito» (ovvero una «continuazione all’infinito»), significa che, poiché esso è l’ultimo, non può essere sorpassato da altri eventi né può, come ogni altro evento, cadere nel nulla, giacché esso, incominciando a brillare nel suo compimento, continua, in questo stesso istante (in cui incomincia a brillare, tale «incominciare» non precedendo il «compimento» di ciò che in tal modo incomincia), a brillare (prevalere) all’infinito, non scendendo mai nei labirinti finiti dell’oblio: è l’angolazione più nitida e cioè il modo più congruente e concreto in cui l’«eterno presente» del destino infinito del Tutto si specchia.

3) «Ognuno di noi» non è desti-nato (in un futuro) ad esperire in modo congruente (come vorrebbe Severino) l’esperienza di «ognuno degli altri», perché questo lo sperimentamo già: in modo congruente, in «ognuno di noi» appare già (nonostante non prevalga) l’esperienza di «ognuno degli altri». «Ognuno di noi», in verità, è destinato (in un futuro, cioè nel Ritorno) a brillare come «l’Io infinito del Tutto» che si rende sempre più conto di essere l’esperienza totale degli eventi, l’abbraccio di tutto con tutto. Non è «Fabio» (cioè la «tua vita») in quanto finitezza che, nel Ritorno, si rende conto di tutto ciò, bensì è «Fabio» in quanto identità concreta che unisce i finiti che, nel Ritorno, aumenta sempre di più l’intensità secondo cui si manifesta il Tutto e cioè questa stessa identità concreta. Cioè tale identità concreta, destinata a lampeggiare nel Ritorno, è la stessa per «ognuno di noi», è unica, è una, è appunto l’Uno (che noi siamo anche adesso, tendendo ancora a non accorgercene poiché prevalentemente illusi di essere soltanto un frammento interno all’Uno, quel frammento che ognuno di noi identifica con «la propria vita»).

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