venerdì 2 marzo 2012

Intervista


Ho rilasciato quest’intervista al giovane filosofo Alessandro Bagnato



1) Ciao Marco e ben venuto nel mio blog, vuoi presentarti ai miei lettori?

Ciao a te, Alessandro, e a tutti coloro che leggeranno quest’intervista. Vorrei avvertire, anzitutto, che sarebbe bene che chi legge queste parole volgesse lo sguardo non semplicemente a <<Marco Pellegrino e al suo libro>>, bensì a ciò che essi cercano di testimoniare (sono io stesso, infatti, a trovare antipatica la mia presunzione, e quindi essa lascia il tempo che trova: il modo in cui si parla di qualcosa deve essere posto <<al centro dell’attenzione>> solo nel caso in cui ciò che si intende dire è un errore; se, invece, ciò che si intende dire è verità, non è il caso di soffermarsi sul modo – presuntuoso o meno – in cui lo si dice). Non è importante che si sappia molto sul mio conto, altrimenti l’attenzione rischierebbe, appunto, di spostarsi su ciò che si crede che esista, e cioè su alcunché (poiché ciò in cui il credere crede non ha alcuna validità semantica al di fuori del credere che crede in esso). Solo l’errore (il credere), infatti, può convincersi dell’esistenza di ciò che chiamiamo <<Marco Pellegrino, individuo umano che ha avuto la capacità, ad un certo momento del tempo, di scrivere un libro>>. Tuttavia, al di là di ciò che l’interpretazione (che è sempre contraddizione) vorrebbe esistente, ciò che concretamente si manifesta nel corso della mia e di ogni altra vita non è illusorio, e in questo senso posso dire che esternare alcune esperienze della mia vita può essere utile sia per chi si ritiene ormai <<uomo vissuto>>, sia per chi, ancora adolescente, si trova di fronte ad un bivio, a dover fare delle scelte. Ecco, per questo lato, affermo di non avere né rimorsi né rimpianti, sia perché, in verità, tutto è già da sempre accaduto,  sia perché, nei miei limiti individuali, sono contento di aver privilegiato il pensiero, la ragione (in una parola: il puro filosofare), piuttosto che abbandonarmi in vuote ambizioni sociali.

2) Vuoi parlarci del tuo libro “La struttura concreta dell’infinito” edito da Youcanprint ? Perché hai scritto questo libro?

Altro è chiedere il motivo per cui si scrive, altro è chiedere il motivo per cui viene pubblicato quel che si scrive; e altro ancora è chiedere il motivo per cui si riflette su ciò che, poi, viene scritto e/o pubblicato – e quest’ultimo motivo è quello fondamentale, quello cioè che più conta.
Rifletto (cioè passo le mie giornate, da più di dieci anni, a filosofare: ragionare, pensare), sulle tematiche squisitamente <<filosofiche>>, perché solo chi vive persuaso di ciò che le <<classi sociali>> (e una <<classe sociale>> è anche, ad esempio, la <<famiglia>> o il <<genitore>>, riduttivisticamente intesi) tendono a reclamizzare (per convenienza, comodità, interessi, intermediazioni, dominio politico e di altro tipo), solo chi vive in questo modo, sto dicendo, non è chiamato (dalla propria coscienza) a filosofare con serietà. Quando all'età di 13-14 anni ti senti dire con una certa insistenza e arroganza: <<Tu devi fare questo piuttosto che quest’altro>>, oppure, ancora: <<Cosa vuoi fare da grande?!? Sbrigati a decidere!>>, ecco, quando ascolti certi discorsi, è chiaro che, se sei fragile e ti lasci condizionare da coloro che ritieni siano il tuo <<prossimo>>, soccombi e diventi prima <<schiavo>> della società, per poi addirittura illuderti di aver raggiunto la felicità, con l’ottenimento degli scopi prefissi; io, invece, ho imboccato l’altra strada, sono andato avanti per conto mio, a costo di isolarmi ed essere denigrato e incompreso: nella primissima fase dell’adolescenza, ho scelto (giustamente: ora lo dico con fermezza assoluta) di filosofare: perché la vita? Perché devo fare questo e non quest’altro? Perché amare o odiare? Perché sono nato? È vero che sono nato o è un’illusione? Cos’è la morte? In cosa consiste tutto questo che chiamiamo <<l’essere>> o <<l’universo>>? Le classiche domande che stanno al fondamento di ogni altra e anche dei falsi problemi (cioè quelli che, nel quotidiano, ci riempiono d’ansia e che basterebbe pensare all’eternità di ogni evento per capire che la loro soluzione non esiste, perché il problema autentico è illudersi che essi esistano). (Che sia chiaro, però, la mia non è polemica, bensì è semplicemente un criticare descrivendo la realtà dei fatti).
La riflessione porta poi alla scrittura, per non lasciare nell’oblio le tante analisi implicate dal pensiero razionale. Ripeto spesso che scrivo per non dimenticare quello che penso (relativo alle tematiche strettamente <<filosofiche>>).
Infine, il pubblicare. Per lo più, diciamo che, più che una mia volontà, è stato un invito a spingermi alla pubblicazione. Ero un po’ combattuto riguardo appunto al render <<pubblico>> qualcosa, i miei scritti, che considero ciò che rinvia a quel che vi è di più intimo in me. Solitamente la gente crede che <<pubblicare>> uno scritto sia qualcosa di più <<positivo>> rispetto al tenerlo nascosto. Invece, è molto più pericoloso <<pubblicare>> che nascondere, perché, la maggior parte delle volte, lo scritto viene travisato.

 3) Opponi il tuo pensiero a quello del Filosofo Italiano E. Severino, ci vuoi spiegare il perché?

La parola <<opposizione>> non la ritengo adeguata per indicare qualsivoglia differenza interna alla totalità dell’essere: l’<<opposizione>> (o <<contrapposizione>>) è solo quella tra essere (= tutto) e niente, poiché, nell’essere, ciò che si pone è il distinguersi tra i modi di esser lo stesso, di essere cioè la totalità dell’essere.
Ciò posto, parliamo quindi di differenti modalità (linguistiche) di riferirsi al medesimo significato. Nel caso del linguaggio di Severino, affermo che , oltre alle necessarie e innegabili differenze linguistiche tra i suoi testi e il mio, nei suoi è prevalente l’intenzione di non indicare il senso autentico dell’eterno.  Sottolineo <<prevalente>>, perché credo che Severino intraveda il processo discorsivo che conduce alle conclusioni del mio libro, nel senso che lascia comunque trionfare, in lui, la vetta più alta che il pensiero alienante della volontà di potenza possa raggiungere: la vetta più aspirata e bramata, stando sulla quale ci si consola e ci si ripara dall’angoscia e dal rimpianto dominanti in <<questa nostra vita>>. Quella vetta è il credere (illudersi) fortemente di potersi lasciare <<all’infinito>> e definitivamente alle spalle il dolore; lasciarselo alle spalle, addirittura, secondo La morte e la terra (l’ultimo saggio di Severino), subito dopo la morte (intesa come il compimento della <<vita>>).
Diciamo brevemente: il discorso di Severino intende testimoniare che la struttura totale dell’essere è la dimensione, non quantificabile, che include infinite parti di sé, giacché tale struttura, pur includendo un primo modo in cui essa è, in quanto <<terra>> (che, nel linguaggio di Severino, vuol dire <<il sopraggiungere>>), affiorante nel finito, è destinata a continuare all’infinito verso il sempre più concreto esser sé stessa, e quindi non approdando mai ad un ultimo accadimento. Il mio discorso, invece, intende indicare la necessità che quella struttura è non quantificabile nel suo esser quantificabile in tutto ciò si pone come sua parte: tale struttura è, cioè, l’identità di tutti gli essenti i quali, in quanto diversi tra di loro e cioè da quell’identità, sono un numero finito di essenti; pertanto, la struttura infinita del Tutto è eternamente identica a sé stessa proprio nel modo in cui, essa, dal primo sopraggiungente procede verso l’ultimo, e cioè il percorso degli essenti si avvia verso una conclusione definitiva proprio perché tutto è eternamente ultimato (compiuto, attuato, realizzato).

4) Severino affronta il “Problema dell’essere” che fu ampiamente studiato e divulgato da filosofi come Parmenide, Platone, Aristotele e in era contemporanea Heidegger. Ci spiegheresti in breve linea cosa si intende per “problema dell’essere”? Ci spiegheresti il tuo pensiero in merito a uno dei concetti detti “fundum” fondamento del sapere filosofico?

Che l’essere esista non è un <<problema>>, altrimenti non si potrebbe nemmeno tener fermo l’essere del <<problema>>, e quindi il <<problema>> (cioè la sua esistenza) stesso sarebbe problematico, e così via all’infinito, giacché non esisterebbe nulla, il che è originariamente autocontraddittorio. L’esistenza di qualcosa è l’assolutamente incontrovertibile. Sul fondamento dell’esistenza innegabile di qualcosa – un fondamento che fonda sé stesso e che in quanto si fonda è anche un <<fondato>>, sì che è necessario affermare che l’esistenza di qualcosa è il fondamento del Tutto, eternamente in atto in modo parziale (= temporale) –, sorgono i <<problemi>>, relativi a ciò che appare in un tempo diverso da quello in cui è posto un certo <<problema>> (ci si chiede infatti: <<Cosa appare in quel tempo?>>), e quindi anche in quel tempo diverso sussiste il <<problema>> rispetto ai contenuti degli altri tempi. Ogni <<problema>> è, comunque, eternamente risolto, nel modo irripetibile in cui, tuttavia, tale risolvimento eternamente realizzato non può far sì che esista una dimensione senza <<problemi>>, giacché tale (presunta) dimensione, se esistesse, sarebbe, sub eodem, un <<problema>> e una <<soluzione>>. (Questa ipotetica dimensione, d’altra parte, è affermata da Severino, che egli chiama <<l’apparire infinito del Tutto oltrepassante eternamente la contraddizione C, ossia la contraddizione dell’apparire come il Tutto da parte di ciò che, non includendo il contenuto concreto del Tutto, è la forma incompiuta del Tutto>>).
Il cosiddetto <<problema dell’essere>>, a cui si rivolge la filosofia occidentale, consiste comunque nella conciliazione tra l’<<eternità>> e il <<movimento>>; ci si chiede, cioè: come è possibile che l’essere, stando in movimento, riesca appunto a <<stare>> (cioè ad essere immutabile, eterno, sempre in luce)? e cioè come è possibile che l’essere, non potendo sopraggiungere e dileguarsi nel suo opposto (cioè nel nulla), sia in continuo <<movimento>>? Queste sono le domande che stanno alla base di tutto il percorso filosofico dell’Occidente, che ha portato dai primi filosofi greci (Talete, Anassimandro, Anassimene, Eraclito, Pitagora, Parmenide e così via) fino, mi azzardo a dire, alla filosofia di Severino. Anche Severino, infatti, pur sapendo che l’incominciante (e il cessante) è eterno come incominciante, non pone al fondamento del suo discorso questo concetto, e cioè il concetto che è il Tutto eterno ad essere sé stesso come incominciante e cessante. Al fondamento del mio discorso, invece, appare appunto tale concetto, e pertanto quelle domande appartengono all’errore, sono cioè falsi problemi, appunto perché non ci si avvede che l’essere è eterno proprio nel modo in cui si muove.

5) Tu sostieni  nel libro “La struttura concreta dell’infinito” che: “L'infinito è ogni cosa, ogni cosa è l'infinito”. Perché trascrivi questa enunciazione? L’infinito può essere definito un “archè”, può essere considerato come un principio originario del tutto, per come lo pensavano i Presocratici?

La <<trascrivo>> per sottolineare che non solo non esiste alcuna differenza semantica tra le espressioni <<l’infinito è ogni cosa>> e <<ogni cosa è l’infinito>>, ma che non esiste alcuna distinzione di significato veritativo nemmeno tra i termini <<infinito>>, <<è>> ed <<ogni cosa>>. In concreto, tutto (questa penna, la differenza tra finito e infinito, il passato, il futuro, etc) ciò che viene affermato significa il medesimo, e la differenza autenticamente semantica (ad esempio tra <<penna>> e <<foglia>>, o tra <<parte>> e <<totalità>>) è tale perché è relativa all’assolutezza del significato infinito.
Quanto al termine <<arché>>, se esso significa ciò che significava per i Greci (ma, poi, per tutta la filosofia occidentale – escludendo, forse, Hegel, e per certi versi anche Spinoza), e cioè qualcosa che, nella sua concretezza assoluta, non può essere colto all’istante e originariamente, allora l’arché non esiste. Se esso significa, invece, l’immediata coscienza di ciò rispetto a cui il nascente nasce e il morente muore, allora ogni cosa è l’arché (noi siamo il fondamento di tutto). Si badi bene: se questo <<ciò rispetto a cui>> è distinto dal <<nascente e morente>>, allora esso è uno dei due tratti essenziali dell’arché, e precisamente è <<il Tutto come distinto dalle sue parti>>.
Il <<dualismo>>, prevalente nella storia della filosofia occidentale (e quindi anche orientale), pone l’<<arché>> in una posizione di inattingibilità assoluta, perché il <<dualismo>> altro non è che la presupposizione (contraddittoria) che la differenza tra Tutto e parte sia diversa dalla differenza tra le parti. Il <<Dio creatore>> delle religioni, il <<Motore Immobile>> aristotelico, il <<Demiurgo>> platonico, l’<<Uno>> neoplatonico, la <<Cosa in sé>> kantiana, lo stesso <<Tutto assolutamente assoluto>> di cui parla Severino, ecco, questi concetti vengono <<innalzati>> (al di sopra del <<mondo>>, della <<materia>>: della <<costellazione infinita dei cerchi finiti>> a cui si rivolge Severino), perché si opera un isolamento tra Tutto e parte, e questo isolamento scaturisce dalla convinzione dell’esistenza di quella <<diversità>> (tra la differenza di Tutto e parte e la differenza tra le parti) che, in verità, non esiste.

6) L’essere era con Parmenide un elemento privo di imperfezioni. Cosa vuole indicare Parmenide? Ci sai dare un tuo punto di vista? Ti ritrovi nel pensiero di colui che per molti è il “Primo Filosofo della Storia”?

Parmenide ha reso esplicito ciò che rimaneva implicito nei filosofi precedenti: l’<<arché>> è l’<<essere>> (ciò che unisce ogni essere è, appunto, l’essere: i filosofi precedenti – da Talete a Pitagora – lo chiamavano in altri modi – <<acqua>>, <<senza perimetro>>, <<aria>>, <<fuoco eternamente vivo, come opposizione tra le cose>>, <<numero>> –, inadeguati ad esprimere il senso assoluto delle cose). L’<<arché>>, pensava Parmenide, non può essere un Principio da cui provenga il nascente e in cui ritorni il morente, perché altrimenti l’essere, che di per sé è immutabile (altrimenti verrebbe e cadrebbe nel non essere), non sarebbe ciò che esso è. Tale Principio è allora – concludeva il più celebre filosofo di Elea – l’assolutamente indifferenziato, cioè privo di parti; ché, se così non fosse, le parti sarebbero, in qualche modo, l’incominciare e il finire di ciò che, si sta dicendo, non può divenire.
Parmenide avrebbe dovuto dire (e che è quello che affermo io) che le parti del Tutto sono, in quanto tali, l’illudersi di non essere il Tutto, pur non essendo illusorio che esistano le parti. Il filosofo eleatico, cioè, non riusciva a dire che l’essere è anche un illudersi di non essere. Parmenide dice: ci si illude che esistano le parti; l’essere è la verità del semplice Tutto semantico, privo di ogni articolazione interna. Ma, osserviamo: questo <<illudersi>> esiste o non esiste? La contraddizione di Parmenide sta nel voler tener fermo, allo stesso tempo, che tale illudersi esiste (altrimenti, egli, non potrebbe affermare che i mortali sono incapaci di scorgere la verità) e non esiste (perché l’essere è la verità dell’Intero non molteplice – giacché se esistesse l’illudersi esisterebbe quel molteplice costituito dall’illudersi e dal non-illudersi).
Dunque, concludiamo noi: che ci si illuda non è illusorio, è affermato con verità; e la verità dell’essere include in sé l’errore: il Tutto si illude, in quanto parte, di essere diverso da ciò che esso è.

7) Cosa rappresenta per te la Filosofia? Ci daresti una tua definizione del termine “ Filosofia”?

La <<filosofia>>, intesa come ciò cui il linguaggio (che è esso stesso <<filosofico>>) si riferisce, è la <<cosa>> stessa: è l’essere, il Tutto (= ogni essente, nella concretezza delle sue determinazioni). Il <<linguaggio>> non acquista significato se, appunto, viene isolato da ciò che esso indica, proprio perché ciò che esso indica è il significato (e quindi anche il significato del <<linguaggio>>). La filosofia è,  allora, il linguaggio fondamentale (ossia che include ogni propria specificazione, nel linguaggio <<politico>>, <<scientifico>>, <<religioso>>, <<artistico>>, <<economico>> etc) che si rivolge a sé stesso in quanto significato oltrepassante eternamente il segno in cui consiste il linguaggio. La filosofia è il pensiero, il pensare, l’esser qualcosa: ciò per cui si afferma tutto ciò che si afferma, e ciò senza di cui non si potrebbe affermare alcunché.
La <<filosofia greca>> è il modo in cui la <<filosofia dell’uomo>> (interna alla <<filosofia dell’errore>> in cui consiste ogni possibile forma di coscienza che concepisce il Tutto come isolato dalle proprie parti) incomincia a mettere in rilievo ciò che, nel <<mito>>, rimane per lo più inconscio. La <<filosofia occidentale>> è la rigorizzazione della <<filosofia orientale>>; e la <<scienza tecnologica>> è, si può dire, la <<filosofia planetaria>>, che conduce la volontà di dominio (la volontà di fare) al massimo delle sue possibilità. Ciò che viene chiamato <<progresso tecnico-scientifico>> è un <<progresso>> per un motivo diverso da quello in cui si crede, ed è un <<regresso>> per un motivo altrettanto diverso da quello per cui si dice che la <<tradizione occidentale>> (e <<orientale>>) rimane indietro rispetto a quel <<progresso>> in cui si crede. Quali siano questi <<motivi diversi>> verrà in chiaro (se è necessità che accada) in una eventuale continuazione, in un altro volume, de La struttura concreta dell’infinito.

8) Ci parli della scelta del titolo al tuo libro e della copertina?

Ho scelto io la copertina (dà il senso del rigore e della precisione speculativa, ma ovviamente non è importante: c’è bisogno di dirlo?). Ho scelto anche il titolo: mettere insieme, in un’unica espressione, il senso della <<concretezza>> e dell’<<infinito>>, che sembrano così lontani tra di loro e che invece, in verità, sono la <<struttura>> (che include un numero finito di <<tratti>>) di ogni <<vicinanza>> e <<lontananza>>; ecco, metterli insieme significa porre l’attenzione sull’infinità del cosiddetto <<visibile>>. Prevale ancora (e per molto tempo ancora) l’illusione, il non accorgersi di vedere sempre la concretezza dell’infinito (e nell’espressione <<concretezza dell’infinito>> è già inclusa l’<<astrattezza>>, e che è l’astrattezza degli stessi essenti la cui concretezza infinita è in luce).

9) Che rapporto hai con la scrittura? Quanto tempo le dedichi?

La scrittura (come accennavo nella risposta alla seconda domanda) è come un farmaco contro il nervosismo che scaturisce dai limiti che attualmente ci condizionano, quei limiti con lo spicco dei quali ci si dimentica del passato e non si riesce a prevedere il futuro. Conosco bene il mio pensiero filosofico, e tuttavia è preferibile <<scriverlo>> (non tutto ovviamente: il libro è solo un cenno), perché le analisi precise e soluzioni di aporie, implicate da quel pensiero, possono ridiscendere improvvisamente nella dimenticanza.
Per quanto riguarda, invece, la scrittura come <<forma di comunicazione>>, se l’<<altrui coscienza>> viene concepita come isolata dalla <<propria>>, allora è chiaro che la <<comunicazione>> è solo un modo di rafforzare e difendere <<il proprio io>> escludendo l’<<altro>>. Mentre, se l’<<altrui pensiero>> (<<la vita altrui>>) viene inteso nel suo senso autentico, e cioè come ciò che struttura il passato e il futuro della <<propria vita>> (a meno che quest’ultima non sia la prima vita che l’infinito vive – la quale non ha un passato –, o l’ultima vita – la quale non ha un futuro), ne risulta che la <<comunicazione>> è il rendersi sempre più conto di includere in sé ogni senso dell’<<altro>>.

10) Hai altri progetti per il futuro? Ci vuoi svelare qualcosa?

Il proseguimento de La struttura concreta dell’infinito è già in corso: è in corso la risposta alle domande finali di quel libro. Domande sul senso del <<passato>>, del <<futuro>>, della <<morte>>; e, ancora, del <<dolore>> e dell’<<amore>>. Potrebbe essere intitolato Del tragico Amore.

11) Dove si può acquistare il tuo libro “La struttura concreta dell’infinito”?

Lo si può acquistare dal sito della casa editrice (youcanprint), o dagli altri store come Libreriauniversitaria, Unilibro, Ibs, La Feltrinelli, Bol, Deastore e molti altri.

12) Vuoi segnalarci qualche link sul tuo libro?

Nel mio blog si possono trovare due sintesi dell’intero pensiero di Severino (una delle quali è lo stesso cap. VIII del libro; l’altra soffermandosi su La morte e la terra); poi, ancora, descrizioni varie del libro e una interessante discussione sullo stesso.

13) Vedi la scrittura di altri generi letterari nel futuro?

Per ora no, sono troppo occupato con la filosofia teoretica.

14) Sono solito chiudere le mie interviste con una domanda alla “Marzullo”. Per te Marco, la realtà è una visione della mente dell’uomo o è l’uomo che vede la sua realtà?

Senza dare troppa importanza a queste espressioni (<<la realtà come visione della mente dell’uomo>>, <<l’uomo che vede la sua realtà>>), dico che ogni essente (quindi anche ciò che viene chiamato <<uomo>>) è la realtà assoluta, è la visione di sé stesso (è sé stesso): tutto ciò che la nostra coscienza vede è la coscienza stessa (ciò che crediamo sia semplicemente <<materia>> è anzitutto <<spirito>>).



Commenti all'intervista

Andrea Berardinelli: Questo libro, del quale ho avuto il piacere di scrivere una breve quarta di copertina, rappresenta un importante tentativo di analizzare l'essenza del fondamento. L'analisi del rapporto tra tutto e parte, tra finito e infinito, è di notevole spessore teoretico. Difatti ogni dualismo ontologico non ricondotto al suo concreto fondamento provoca quelle enormi contraddizioni, consistenti nel finitizzare l'infinito, ritrovarselo come parte e rilevare problematicità che presuppongono quell'erronea analisi iniziale. Il punto dove si arena Severino, che rimane maestro e pensatore indiscusso  e decisivo nella storia della filosofia contemporanea, si situa nell'astrattezza con cui considera l'apparire infinito, eternamente sottratto all'attuale, e dunque per sempre isolato dallo sviluppo indefinito del cerchio finito dell'apparire. Pellegrino si accorge, giustamente, che tale risvolto finale implica che l'apparire infinito non possa mai costituirsi come concreto Tutto, rimanendo confinato ad una caratterizzazione simil-teologica della sua essenza.


Nessun commento:

Posta un commento