martedì 29 marzo 2016

"Persintassi", "iposintassi" e "apparire a sé stesso"



[Riportiamo un breve estratto di Matematica dello Spirito (pp. 176-177)].

Si aggiungano ora, a riguardo del discorso filosofico di Severino, le seguenti osservazioni.
Secondo tale discorso, il Tutto assolutamente concreto è il non contraddicentesi esser sé dell’essente (cioè l’infinita e assoluta «persintassi», ossia l’oltrepassamento già da sempre e per sempre compiuto della «contraddizione C»). L’«apparire infinito», che nulla accoglie e da cui nulla si congeda (e che include ogni modalità finita dell’apparire), è «l’individuazione suprema» di tale esser sé (cfr. La morte e la terra). Altre individuazioni dello stesso non contraddicentesi esser sé dell’essente sono: 1) l’«iposintassi» (ossia la dimensione non sopraggiungente che, in quanto sopraggiungente, è «terra»); 2) la persintassi finita, includente la «costellazione infinita dei cerchi finiti» e trascendentali e la contraddizione C. Se questa costellazione la chiamiamo «la totalità non-numerabile delle manifestazioni trascendentali», allora è chiaro che ogni «apparire empirico» (ogni «terra», compresa la «terra che salva dall’isolamento»), che entra ed esce da questa totalità, proviene e rientra (dice Severino) nell’apparire infinito.
Orbene, Severino sbaglia perché intende l’apparire infinito come ciò a cui nulla sfugge, in cui nulla può sopraggiungere (sebbene egli tenti di non cadere in contraddizione dicendo che il sopraggiungere che in esso appare gli appare appunto come un sopraggiungere) e da cui nulla può ritrarsi, e, sub eodem, come ciò da cui proviene e in cui ritorna il sopraggiungente (successivamente dileguantesi). Severino non può replicare, a questo punto, che è pur sempre all’interno dell’apparire infinito che questo processo del provenire e rientrare da parte del sopraggiungente appare. Non può replicare così, proprio perché se si afferma che il sopraggiungente proviene e rientra in una certa parte dell’apparire infinito, ci si contraddice perché si intende tener fermo che questa parte è un finito e, sub eodem, che essa stessa non può essere un finito proprio in quanto è dall’intero apparire finito (cioè da quella costellazione) che il sopraggiungente si congeda (ed è nell’intero apparire finito che il sopraggiungente entra); e ci si contraddice anche se si afferma che il sopraggiungente proviene e rientra nell’apparire infinito in quanto tale, appunto perché l’apparire infinito, in quanto vede eternamente tuttonon può consentire che da esso esca qualcosa per entrare nell’apparire finito, e nemmeno che in esso entri qualcosa dopo esserne uscito.

Il vero «apparire infinito», al di là di ciò che prevale nel linguaggio di Severino, è lo stesso non contraddicentesi esser sé del Tutto (perché essere è apparire, al di fuori della loro mera distinzione terminologica), ed è l’apparire che, non aggiungendo altri essenti a quelli che in modo finito appaiono, è appunto l’apparire che mostra sé stesso come uno svolgimento finito di essenti: è l’eternità di ogni movimento, anche di quell’ultimissimo passo, del sentiero finito dell’infinito apparire, che non può né finire nel nulla assoluto né esser sorpassato da altri essenti.


[Riportiamo, ora, un altro estratto di Matematica dello Spirito (pp. 144.147)].

L’espressione «apparire a sé stesso», così isolata (senza alcuna precisazione, senza cioè il riferimento dell’apparire a qualcosa che, all’interno della sua assoluta identità con tale apparire, ne è anche parzialmente distinto cioè parzialmente identico), è autocontraddittoria, impossibile, è lo stesso nulla assoluto. In questo senso è pertanto impossibile che il Tutto (cioè l’apparire stesso, il pensiero, l’essere, il fondamento, l’Amore, l’albero in quanto concretamente legato ad ogni altro essente e quindi ogni essente in quanto così legato cioè anche finitamente distinto dalla coscienza altrui, la coscienza essendo l’essente stesso) appaia a sé stesso.
È necessario negare, come conseguenza dell’illudersi in quell’isolamento impossibile, il significato severiniano indicato dal termine «apparire dell’apparire dell’apparire».
L’apparire (totaleappare, ma nel senso che questo secondo «apparire» è parziale, giacché l’apparire totale (il Tutto) è l’apparire totale di sé stesso in quanto parziale (ossia è l’apparire totale che include sé stesso come apparire parziale e cioè come parziale non-apparire, ossia contiene sé stesso in modo parziale, in uno svolgimento limitato di eventi, negando dunque che possa esistere ogni ipotetico processo all'infinito di infinite differenze). Il Tutto concreto è proprio questa luce (apparire) che è sé stessa soltanto in modo parziale. Il Tutto non può essere sé stesso in modo totale: il «modo» è infatti la stessa «parzialità». Il «modo totale», al di fuori dell’esser totalità che ogni «modo» è in quanto già da sempre e per sempre identico a ciò, il Tutto, di cui esso è «modo», non esiste, Severino credendo invece nella sua esistenza, quando afferma l’essere dell’«apparire infinito in cui nulla sopraggiunge». L’autocoscienza autentica non è quella di cui parla Severino, bensì è coscienza (totale) della coscienza (parziale).
Il Tutto non può, simpliciter, apparire a sé stesso. Il Tutto, in verità, appare alla (ossia èparte (nel senso che il legame che unisce parte e Tutto è la loro uguaglianza, nel senso che gli essenti che costituiscono la struttura della parte sono gli stessi che costituiscono la struttura del Tutto), nel modo in cui si distingue parzialmente dalla parte, sì che gli essenti che costituiscono la struttura della parte sono anche distinti dagli stessi essenti che costituiscono la struttura del Tutto, nel senso che tali essenti (che, in quanto legati, sono il Tutto e che, in quanto distinti, sono una sua parte, cioè sono parte del proprio profondo esser sé in cui consiste il Tutto stesso che appare sempre e ovunque qualcosa appaia) si distinguono tra di loro (l’albero non è il monte, io non sono te, ecc.).
Il Tutto è un «di più» rispetto alla parte solo nel senso che il legame concreto, che unisce l’albero al monte e ad ogni altro essente, include la distinzione finita tra lo stesso albero, lo stesso monte e gli stessi altri essenti. Questa stessità (o medesimezza) è quello stesso legame concreto, appunto, tra gli stessi essenti che sono anche distinti tra di loro cioè da sé stessi in quanto Tutto. Il Tutto, in quanto appare a sé stesso nella modalità dell’esser parte (di sé stesso, appunto, in quanto Tutto), è ciò che la parte in verità vede (parzialmente, all’interno della visione totale degli essenti, la quale è sì identità di Tutto e parte, ma ciò non significa che questa visione sia il «modo totale» in cui il Tutto appare, tale «modo totale», come si è già detto, non potendo esistere), illudendosi di non veder nient’altro che la parte.
Questo apparire del Tutto a sé stesso in quanto parte, è lo stesso prevalere (finito) della parte su sé stessa in quanto Tutto. La parte che appare a sé stessa in quanto Tutto (cioè, in altre parole, lo Spirito del Tutto che vede i propri modi di essere cioè le parti), invece, è lo stesso prevalere (finito) del Tutto su sé stesso in quanto parte, tale prevalere essendo ancora un futuro (eterno, come ogni essente).
«La tua vita», in quanto parzialmente distinta dalla «mia vita», è o un passato o un futuro rispetto alla «mia vita»È certamente un passato o un futuro, rimanendo ancora problematico stabilire se sia un passato e cioè non un futuro, o se sia un futuro e cioè non un passato. «La mia vita» e «la tua vita», in quanto distinte tra di loro, sono modi diversi di esser lo stesso cioè il Tutto (in senso hegeliano, e quindi in un senso diverso da quello per il quale Severino afferma «l’identità che permane nel diverso»). Ma queste «vite» non sono soltanto distinte tra di loro, appunto perché le distinzioni appaiono nell’identità assoluta che in eterno e in modo processuale le unisce, questo «modo processuale» essendo il senso stesso della «distinzione». Se non ci fosse un processo, lo Spirito del Tutto non includerebbe alcuna distinzione, alcun modo di essere. Si sta tentando di spiegare che gli essenti possono ed è necessario che appaiano (anche) distinti tra di loro solo in quanto essi appaiono in una diacronia, la sincronia essendo il Tutto stesso (che, appunto, appare soltanto in modo diacronico).
D’altro canto, è chiaro che se la parola «Tutto» viene intesa, contraddittoriamente, come indicante un significato (in questo caso: il significato) diverso da ciò che viene indicato dalla parola «apparire» e dalla parola «relazione» (intesa a sua volta, anche qui contraddittoriamente, come semanticamente distinta dalla parola «uguaglianza»), allora l’affermazione che «il Tutto appare» (o «il Tutto è in relazione con le proprie parti») è immediatamente autocontraddittoria. Si tratta dunque di intendersi, anzitutto, sul significato autentico delle parole che usiamo e che, sbagliando, crediamo siano soltanto differenti tra di loro.
Il Tutto è l’indivisibile, ma l’indivisibile, al suo interno, è divisibile in un numero finito di modi. Ciò significa che l’indivisibile, al di là di un numero siffatto, non è ulteriormente divisibile, ossia è sé stesso, ossia appare. Ora, se l’affermazione che «l’indivisibile appare» fosse isolata dal «numero finito di modi» (in cui, appunto, l’indivisibile appare), allora tale affermazione sarebbe, anche qui, originariamente autocontraddittoria.
Quindi è chiaro che se col termine «Tutto» intendiamo «tutto ciò che appare in modo parziale» (ossia in un numero finito di modi), allora il Tutto non è (ulteriormente) in relazione con le proprie parti. Severino sbaglia perché crede in una ulteriorità siffatta (giacché, secondo lui, il Tutto è una relazione che è sé stessa includendo un percorso all’infinito di infiniti tratti finiti di sé stessa, e ciò è assurdo, non può essere). Quindi è altrettanto chiaro che quando si dice che il Tutto (l’apparire, l’Io infinito che tutti noi siamo in verità, nei modi finiti e congruenti) appare alla parte non si intende affermare che il Tutto appaia, simpliciterad altro (se così fosse, il Tutto non sarebbe il Tutto e quindi nemmeno le sue parti sarebbero). È necessario dire, infatti, che il Tutto non può  apparire, simpliciterad altro apparire, simplicitera sé stesso. In verità, il Tutto include sé stesso come altro (cioè come parte, cioè vede sé stesso ossia è sé stesso in modo parziale). La distinzione è distinzione tra le parti cioè tra Tutto e parte.

In altre parole, se l’affermazione che il Tutto si distingue dalla parte non è intesa come la stessa distinzione tra le parti (cioè tra i modi in cui il Tutto stesso è il Tutto), allora tale affermazione è, ancora una volta, immediatamente autocontraddittoria. Ne La struttura concreta dell’infinito non si fa altro che chiarire il significato autentico delle parole, delle espressioni, in modo tale che, comunicando, si volga lo sguardo verso lo stesso significato.

Nessun commento:

Posta un commento